12 settembre 2016 14:10

In una scena di Voyage of time: life’s journey di Terrence Malick, un branco di leopardi si nutre di una gazzella troppo lenta per scappare. Potrebbe essere una buona metafora per illustrare la 73ª edizione della Mostra del cinema di Venezia, il cui concorso sembrava a volte un combattimento tra vecchi registi che cominciano a perdere colpi e baldi giovani che li braccano affamati (preciso che per “giovane” qui intendo “under 50” – il mondo degli auteur è per natura gerontocratico).

Lascio da parte il Leone d’oro ad Ang babaeng humayo (The woman who left) del regista filippino Lav Diaz, unico titolo in concorso che ho perso quest’anno; sarà per un altro post. Dai film visti, mi è parso in modo ancora più chiaro, rispetto a Cannes o a Berlino, che davanti alla stanchezza creativa di certi maestri del passato, in primis Wim Wenders ed Emir Kusturica, sta emergendo una schiera di talenti.

Tra questi spicca sicuramente il cileno Pablo Larraín, già ampiamente affermato, seguito da Amat Escalante, Christopher Murray, Damien Chazelle, Stéphane Brizé, con il prolifico François Ozon nel ruolo di jolly. Dopo 15 film in soli 18 anni, forse sarebbe corretto collocare il regista francese tra i vecchi, ma con Frantz ha dimostrato di avere ancora tante cose da dire, e di essere un maestro fine dell’arte del raccontare per suoni e immagini.

Malick rappresenta una parziale eccezione tra i maestri d’antan. La narrazione fuori campo di Voyage of time, affidata a Cate Blanchett, logora con la solita vena metafisica interrogativa, già ultrasperimentata in To the wonder, L’albero della vita e via discorrendo, questa volta rivolta a una “madre” non meglio identificata (“Mother? Am I not your child?” rende l’idea).

Ma sul piano delle immagini, il regista texano, scartati quei piccoli drammi umani che forse non gli interessano più, si dedica anima e corpo ai drammi cosmici: la nascita dell’universo, delle stelle, della Terra e delle sue creature. Certi accostamenti sono banali, ci sono degli effetti speciali che stridono (come il baby-dinosauro che fa molto Pixar), ma quando la poesia visiva di questo viaggio attraverso il tempo siderale ti prende, ti prende in pieno.

La profondità di Jackie
Il film più bello del concorso, più compiuto, profondo, sfaccettato, è sicuramente Jackie di Pablo Larraín, anche grazie a un’interpretazione altrettanto profonda e sfaccettata di Natalie Portman. È una pellicola che trasuda intelligenza. Sarebbe stato troppo facile fare un melodramma sentimentale sulla vita della first lady Jackie Kennedy nelle ore e i giorni che seguirono l’assassinio di suo marito John, a Dallas nel 1963.

Ma la morte di un presidente è un momento in cui i sentimenti si scontrano con le ragioni di stato e i giochi di potere: basta la scena, potente, dell’affrettato giuramento del vice di Kennedy, Lyndon B. Johnson, sull’Air force one di ritorno da Dallas, a farci capire questo. Poco prima, Jackie era in auto con la mano sulla testa del marito morente, nel tentativo di fermare il sangue, di ricomporre i pezzi di cranio e di cervello. Dopo nemmeno due ore, vestita nella stessa tenuta rosa Chanel, ormai macchiata di sangue, guarda smarrita la nuova First lady che prende il suo posto.

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Larraín ha capito benissimo che Jacqueline Kennedy era una donna più complessa di quanto potesse sembrare. Icona di stile, madre di due bambini (più altri due morti prima di nascere), ex giornalista, laureata in letteratura francese, fu la prima moglie di un presidente degli Stati Uniti ad assumere un addetto stampa personale.

Ma il regista cileno ha capito anche che in questi giorni confusi e tristi nella vita di Jackie c’era nascosta non solo la tragedia di una donna che ha perso il marito amato, ma una metafora del rapporto tra storia e individuo. Larraín ama ricreare dei materiali audiovisivi d’epoca. L’abbiamo visto già in No, il suo film sull’agente pubblicitario che guidò il referendum contro Pinochet nel 1988.

Qui ricrea uno speciale televisivo che Cbs e Nbc mandarono in onda a reti unificate nel giorno di san Valentino nel 1962, in cui la signora Kennedy (sempre interpretata da Natalie Portman) accompagna le telecamere in una visita alla Casa Bianca, recentemente riarredata sotto la sua guida. La moda e l’arredamento qui non sono dei valori frivoli, diventano simboli complessi di caducità, di materialismo storico, ma anche di come una donna intelligente può manipolare e far risuonare le sfere femminili in cui si trova confinata.

Delusioni d’autore
Ho accennato prima alla mia delusione davanti ai nuovi film di Wenders e Kusturica; mi pare giusto spendere qualche parola in più per spiegare perché. Les beaux jours d’Aranjuez di Wenders, basato su un testo teatrale di Peter Handke che qui è trascinato sullo schermo senza cambiare quasi una virgola, è una lunga conversazione tra due quarantenni, un uomo e una donna, entrambi rappresentanti della haute bourgeoisie culturelle parigina, in un giorno di fine estate.

Ma più che una conversazione è un monologo, perché l’uomo non rivela niente di se stesso, fa solo domande sulle esperienze sessuali e sentimentali di lei. Lei, con aria soignée, risponde trasformando tutto in epifania, pippa mentale, bildungsroman. Fa rimpiangere un altro monologo sul sesso, quello scottante di Bibi Andersson in Persona di Bergman che sprizzava un erotismo “pericoloso” (perché femminista) e che questo moscio e noioso dialogo sentimentale non sfiora nemmeno. A un certo punto spunta fuori una canzone di Nick Cave, interpretata da Nick Cave in persona, seduto al pianoforte nella vecchia casa davanti al giardino. Pausa popcorn?

Ma il mistero più profondo di Les beaux jours d’Aranjuez è il fatto che sia girato in 3d. Forse mai gli occhiali polarizzati sono stati più inutili.

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Durante uno scambio su Facebook tra me e un mio amico cinefilo a proposito di Sulla via lattea, il primo lungometraggio di fiction di Emir Kusturica da nove anni a questa parte, un amico in comune ha chiesto: “Ci sono le oche?”. Sì, le oche ci sono. Ci sarebbe da fare una monografia sulle oche nei film di Kusturica. Questa volta si buttano in una vecchia vasca da bagno riciclata per raccogliere il sangue dei maiali destinati al macello. Diventano oche-fenicottero e sono prese d’assalto dalle mosche, attratte dalla puzza. Che risate, ragazzi.

Nella prima parte, il film rimbalza da una scena pazzoide e surreale a un’altra come un flipper balcanico. Nella seconda, c’è un lungo inseguimento in chiave realismo magico. Kusturica stesso interpreta un lattaio brutto, ma che per qualche motivo fa innamorare donne come quella interpretata da Monica Bellucci, il cui personaggio è protagonista di un antefatto troppo stupido per essere raccontato. Le donne sono attratte da lui come se fossero mosche attirate da un’oca coperta da sangue di maiale. L’unico vantaggio dell’interpretazione inespressiva di Kusturica è che ci ricorda che Monica Bellucci sa recitare.

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