21 febbraio 2017 16:11

Quella del concorso della sessantasettesima edizione dell’Internationale Filmfestspiele Berlin, è stata una delle selezioni più deboli degli ultimi dieci anni. E nei grandi festival, quando il concorso zoppica, è difficile che le sezioni parallele riescano a rimediare. Ma come dice un mio amico esperto di vino, le annate “no” possono essere divertenti perché ti mettono alla prova, costringendoti a viaggiare e degustare alla ricerca delle poche eccezioni (che per contrasto sembrano ancora migliori). Ecco, allora, quattro eccezioni alla mediocrità della Berlinale 2017, a partire da due documentari che rispolverano e ricollocano nel presente due iconoclasti culturali del dopoguerra.

I am not your negro

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I giovani leggono ancora James Baldwin? (I giovani leggono ancora?) Devo ammettere che la mia personale conoscenza dello scrittore afroamericano è limitata al suo primo romanzo del 1953, Gridalo forte, che mi fu proposto quando avevo circa 15 anni da un professore di liceo poco incline a seguire il programma ministeriale. Ma dopo aver visto il documentario del regista haitiano Raoul Peck su Baldwin, presentato a Berlino dopo la sua candidatura per l’Oscar, voglio colmare la lacuna. È un documentario importante e attuale sull’impegno civile dell’artista negli anni sessanta, davanti a una situazione insostenibile di negazione di diritti dei neri statunitensi.

Prendendo spunto da un manoscritto incompleto, Remember this house, appunti per un libro in cui Baldwin intendeva raccontare e intrecciare le storie di tre suoi amici uccisi, Medgar Evers, Martin Luther King e Malcolm X, il film ci restituisce un Baldwin arrabbiato ma anche eloquente. È un oratore capace di infiammare il pubblico televisivo statunitense come quello di un’aula di Cambridge, con la passione di ciò che nella sua gioventù da predicatore evangelista si sarebbe chiamato “his testimony”, la sua testimonianza di ingiustizie subite da lui e dell’intera comunità nera degli Stati Uniti.

L’intensità di I am not your negro è favorita dal fatto che si sentono solo ed esclusivamente le parole di Baldwin, o direttamente con la sua voce, o tratti dai suoi scritti, letti qua da Samuel L. Jackson. “La storia non è il passato, è il presente. Portiamo la nostra storia addosso. Pensare altrimenti è criminale”, sentiamo dire mentre sullo schermo passano le immagini del pestaggio di Rodney King e la rivolta di Ferguson, Missouri. E per una volta un documentario non di Michael Moore sarà distribuito anche in Italia: I am not your negro uscirà il 22 marzo grazie alla collaborazione fra Feltrinelli Real Cinema e Wanted.

Beuys
Il valore di un documentario biografico sta in quello che ci riesce a dare oltre al riassunto Wikipedia della vita del personaggio. Nel film di Andres Veiel sull’artista tedesco Joseph Beuys, questo valore aggiunto sta nella dimostrazione elegante che la vita e l’opera di Beuys erano più o meno la stessa cosa. Non c’è differenza fra uno schizzo fatto verso la fine degli anni cinquanta, gli anni bui di depressione quando l’artista viveva praticamente rinchiuso nella casa di due mecenati generosi, e una performance in cui cerca di spiegare l’arte classica a una lepre morta. E non c’è differenza fra quest’ultimo e il suo discorso davanti a una platea di dignitari locali riuniti per l’apertura dell’anno accademico della scuola d’arte di Düsseldorf dove Beuys insegnava, in aperto conflitto con le autorità.

Non parla, emette grugniti nel microfono, grugniti che assomigliano al parlato umano ma senza contenuto semantico. Il film è composto per almeno il 90% di immagini di repertorio; nella ricerca paziente e nel montaggio ponderato di questo materiale fa rivivere un Beuys coerente, impegnato, appassionato, non lo sciamano mistificatore e manipolatore che una certa corrente della critica ci vuole imporre. Beuys era anche l’unico vero film da concorso fra i tre candidati tedeschi per l’Orso d’oro, a prova del fatto che il festival di Venezia non è il solo a dover, a volte, abbassare il livello qualitativo per raggiungere una quota nazionale.

Una mujer fantástica

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Gloria, del regista cileno Sebastian Lelio, fu una scoperta alla Berlinale del 2013. Una mujer fantástica, il seguito, ha illuminato il concorso di quest’anno. Sono due storie simili, di donne insieme forti e fragili che cercano di mantenere la loro dignità in un mondo che le maltratta. Solo che questa volta la mujer fantástica è una trans, Marina, cameriera e cantante, la cui bolla protettiva di affetti e amore scoppia quando muore il suo compagno, un uomo più anziano separato da sua moglie (una donna tutt’altro che fantastica). Si capisce da subito, dall’ospedale dove porta il compagno in arresto cardiaco, che Marina affronta un calvario di insinuazioni e sospetti, anche di natura giuridica, che svelano l’intolleranza di una società che a parole dice di rispettare i diritti transgender, ma nella pratica tratta quest’uomo diventato donna come una chimera, un mostro, che non può dunque pretendere di godere degli stessi privilegi delle persone “normali”. Nel ruolo principale, l’attrice transgender Daniela Vega è fulminante.

Hao ji le (Have a nice day)

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Passato in concorso l’ultimo giorno del festival, questo film d’animazione cinese è stato la mossa del cavallo della Berlinale 2017. Certo, in un’annata più forte, sarebbe forse stato relegato a una sezione parallela per il solo motivo che lo stile di animazione è fra il fumetto e il film compiuto, con quella mancanza di fluidità che caratterizza l’anime televisivo giapponese. Ma quello che il regista Liu Jian fa con la tecnica dell’animazione 2D “limitata” è veramente sorprendente. Aprendo con una citazione tolstoiana sulla primavera che si fa sentire anche in mezzo al degrado urbano, Hao ji ritrae, in un’anonima città del sud, un mondo di boss e ladruncoli, di sfruttati e corrotti, dove i soldi dettano legge e mettono in disparte valori come l’amicizia o il bene comune.

È una commedia nera con sfumature tarantiniane, ma molto cinese. Un film in cui una borsa piena di yuan, dunque piena di facce sorridenti di Mao Zedong, scatena un balletto amaro, duro e ironico di pura avidità, tutto nato per finanziare un secondo intervento di chirurgia plastica per una donna sfigurata da un primo intervento sbagliato. Lo stile grafico di Liu sembra un incrocio tra i film di Sylvain Chomet e Beavis e Butthead in salsa agrodolce. Ci regala una Cina urbana di cantieri, anonimi palazzi alti e tristi casupole basse, dove i pochi edifici storici rimasti si nascondono dietro a una foresta di insegne sgargianti. Insieme a un altro progetto di film animato ancora in fase di lavorazione – Ningdu, del regista Lei Lei, sulle conseguenze devastanti della rivoluzione culturale – Hao ji ci fa vedere che in Cina, oggi, ci sono delle sacche di resistenza all’idea che la cultura va bene finché non pone domande scomode.

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