25 settembre 2015 12:09

Il guaio è se lo scopre Donald Trump. L’anno prossimo, mentre le elezioni degli Stati Uniti diffonderanno la loro luce sull’occidente, compirà cent’anni un libro che ha influito come pochi altri sulla vita di quel paese, e che in molti poi hanno voluto dimenticare.

Il suo autore, Madison Grant, era nato nel 1865 a New York, in una di quelle famiglie che si ritenevano patrizie perché erano sbarcate qui nel seicento, quando bisognava essere molto poveri per voler emigrare su quest’isolotto selvaggio.

Grant studiò giurisprudenza a Yale e alla Columbia, non esercitò la professione di avvocato perché non ne aveva bisogno e si dedicò soprattutto alla caccia grossa. Nel 1916, ormai cinquantenne, pubblicò la sua opera magna: si chiamava The passing of the great race, la caduta della grande razza, e fu un successo.

La grande razza era ovviamente quella bianca e il libro lamentava la sua presunta decadenza. Per spiegarla cominciava classificando i “caucasoidi”, di gran lunga superiori ai “negroidi” e ai “mongoloidi”, in tre tipologie. I “nordici” erano i migliori, poi venivano gli “alpini” e infine, come una piaga viziosa, pigra e stupida, i “mediterranei”: greci, italiani e spagnoli.

Da cui la sua tesi centrale: l’immigrazione indiscriminata di questi esseri inferiori stava distruggendo l’America, e i bruti si riproducevano così tanto che la loro carica genetica stava rovinando il nordico popolo americano. Era una vergogna, diceva Grant, che i suoi compatrioti “volessero vivere una vita facile e agiata per una manciata di generazioni” importando quella manodopera a basso prezzo che avrebbe spazzato via la loro razza.

Non era neanche necessario ucciderli quei fallimenti sociali: bastava sterilizzarli, diceva Grant

L’America stava crollando, ma Grant le offriva delle soluzioni: per i casi più estremi di degradazione proponeva “un rigido sistema di selezione attraverso l’eliminazione dei deboli e dei disabili” – in altre parole, dei fallimenti sociali – “che nel giro di cent’anni ci consentirà di disfarci degli indesiderabili che riempiono le nostre carceri, i nostri ospedali e i nostri manicomi”.

Non era neanche necessario ucciderli, diceva: bastava sterilizzarli. “È una soluzione pratica, misericordiosa e inevitabile che può essere applicata a una cerchia crescente di rifiuti sociali, a cominciare dai criminali, dai malati e dai pazzi per poi essere estesa gradualmente ai tipi che potremmo chiamare non più difettosi ma deboli, e infine alle tipologie razziali inutili”.

L’eugenetica era una corrente molto forte, e The passing of the great race fu la sua bandiera. Il suo discorso funzionò: pochi anni dopo la corte suprema degli Stati Uniti dichiarò che la sterilizzazione dei “deboli di mente” non violava la costituzione. Nei dieci anni successivi furono sterilizzate 60mila donne.

L’ammirazione di Adolf Hitler

Fu uno dei successi di Grant e dei suoi. Ma il più grande arrivò quando la sua insistenza riuscì a mettere fine all’immigrazione che aveva creato il suo paese. L’Inmigration act promulgato nel 1924 da un governo repubblicano stabilì delle quote che limitavano l’arrivo di italiani, polacchi, cinesi, giapponesi ed ebrei e chiuse la prima grande ondata migratoria americana.

Di tanto in tanto qualcuno ristampa The passing of the great race, anche se i suoi editori non osano mettere in copertina l’opinione di Adolf Hitler: “Questo libro è la mia Bibbia”.

Dette così, a grandi linee, le sue idee possono sembrare intollerabili o ridicole. All’epoca erano considerate scientifiche ed ebbero effetti importanti: ricordarle serve a domandarci quali delle idee che oggi prendiamo sul serio sembreranno ridicole o inaccettabili tra poche decine di anni. Ma dietro la parvenza di correttezza politica, i suoi concetti rispuntano per ogni barcone nel Mediterraneo, in ogni Trump che grida, in molte conversazioni da bar.

Madison Grant morì nel 1937. Il suo libro era studiato, le sue idee erano influenti, i suoi discepoli aumentavano. Ossessionato dalla conservazione della natura, Grant aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita all’ambiente, e si fece notare anche in quel campo: sembra che si debba a lui la sopravvivenza del bisonte e di altre grandi bestie minacciate dall’uomo.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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