24 dicembre 2014 14:51

“Teorema: quando si sta a tavola coi parenti almeno tre ore si arriverà irrimediabilmente a parlare dei marò. Aiutosalvatemi”.

L’ha scritto qualche ora fa un’amica su Facebook e non è difficile immaginare il riproporsi della scena in gran parte delle case italiane, con famiglie riunite intorno alla tavola, edizione natalizia del tg a fare da sottofondo.

La crisi diplomatica tra Italia e India, scoppiata dopo l’arresto deciso dalla polizia indiana di due fucilieri di marina italiani accusati di aver ucciso due pescatori imbarcati su un peschereccio indiano il 15 febbraio 2012 al largo delle coste del Kerala, nell’India sud occidentale, ha tutte le carte in regola per essere considerato argomento di conversazione spicciola tra parenti e amici, nella sua declinazione nazionalpopolare dei “nostri ragazzi detenuti ingiustamente in India”.

Dei due fucilieri, ormai, si può parlare abbastanza facilmente, inserendosi nella narrativa italiana delle angherie indiane inflitte a due servitori dello stato e quindi, per estensione, al paese intero.

Il recente rifiuto della corte suprema indiana di prendere in considerazione le due istanze avanzate dai legali di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ha riacceso le braci del malessere collettivo e si è tornato a parlare di una posizione indiana “contro i diritti umani”. I giudici avrebbero respinto una richiesta “umanitaria”. È utile rinfrescare un po’ la memoria, per arrivare pronti al dibattito del pranzo di Natale.

Quando qualcuno si lamenterà dello stato di prigionia dei fucilieri, si potrà ricordare che in oltre mille giorni di fermo all’interno del territorio indiano, Latorre e Girone – consegnati alle autorità di polizia indiane il 19 febbraio del 2012, per ordine di non si sa bene ancora chi – indagati per il duplice omicidio dei pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine, hanno potuto godere di misure cautelari assolutamente eccezionali considerando le accuse: non hanno passato un solo giorno in prigione (quando soggiornavano all’interno di un istituto carcerario, in Kerala, stavano nell’ala riservata al personale impiegato, non ai detenuti), risiedendo in hotel a cinque stelle o, dal gennaio del 2013, in appartamenti all’interno dell’ambasciata d’Italia a New Delhi; la stessa corte che la scorsa settimana ha respinto la “richiesta umanitaria”, in questi anni ha accordato due licenze a Girone (Natale 2012 ed elezioni politiche italiane 2013) e tre a Massimiliano Latorre (una in più per motivi medici, dopo l’attacco ischemico dello scorso settembre), che al momento è in Italia e sta seguendo un percorso di riabilitazione fisica e psicologica; le rispettive famiglie hanno potuto visitare i propri compagni e padri senza alcuna limitazione imposta da New Delhi; i due fucilieri, qui in India, possono muoversi liberamente all’interno della municipalità della capitale, con obbligo di firma una volta alla settimana.

Quando lo zio, ad antipasti quasi esauriti, si scaglierà contro i giudici indiani, si potrà portare all’attenzione della tavolata che la sostanziale accondiscendenza della corte indiana è stata scialacquata con il tranello messo in piedi nel marzo del 2013 da Giulio Terzi di Sant’Agata – all’epoca ministro degli esteri – che prima fa firmare al nostro ambasciatore in India una lettera in cui ci si impegna, come stato, a riportare in India i fucilieri al termine della licenza elettorale, e qualche giorno dopo comunica via fax alle autorità competenti che no, avevamo cambiato idea, e non glieli ridavamo più.

A questo punto, stappata la seconda bottiglia di vino, un cugino dirà che comunque i fucilieri sono detenuti illegalmente, in spregio al diritto internazionale. E qui sarà meglio prendere appunti alla vigilia, perché questa è la posizione italiana – l’unica ad essere stata raccontata sui nostri mezzi d’informazione – mentre l’India dice che nelle acque dove è avvenuto l’incidente, secondo le proprie leggi precedenti alle convenzioni internazionali firmate (con riserve!), vale la completa giurisdizione indiana. Una posizione che ha diritti di cittadinanza nelle interpretazioni del diritto internazionale e, per questo, l’Italia ha preferito far leva sul principio di immunità funzionale: i due fucilieri sono organi dello stato in servizio e quindi giudicabili solo da tribunali italiani.

E allora cosa ci facevano in servizio su una petroliera privata, con una catena di comando in cui non è chiaro se le decisioni le prendono i militari o il capitano civile della nave, mentre il resto del mondo fa fare questo lavoro ai contractor privati?”. Alcuni secondi di gelo, rumore di forchette che infilzano gli ultimi bocconi della prima portata. Questa condizione permette all’India di dire che per due militari a bordo di un’imbarcazione civile l’immunità funzionale potrebbe non valere (non è mai successo prima, è un unicum nella storia del diritto internazionale).

“A parte che le coste indiane sono piene di pirati e comunque non ci sono prove che abbiano sparato loro, anzi, li hanno incastrati! Sono stati quelli della marina dello Sri Lanka, l’ha detto la televisione. Per questo non c’è ancora un capo d’accusa e i giudici continuano a rinviare!”.

A metà del secondo, sarà necessario precisare che spesso la televisione dice un po’ quello che le pare, che in India i pirati non ci sono e che i continui rinvii nel dibattimento sono dovuti a un mix di lungaggini burocratiche endemiche e risultati ottenuti dalla strategia della difesa italiana, che ha – giustamente – messo in discussione il coinvolgimento della polizia federale antiterrorismo National investigation agency (Nia) subito dopo essere riuscita a escludere l’applicazione di una legge federale che, a regola, avrebbe comportato il rischio di pena di morte (inapplicabile in questo caso, come ribadito allo sfinimento dalle autorità indiane).

E che le prove, secondo l’India, ci sono: c’è anche una perizia della scientifica indiana in cui si spiega che i proiettili rinvenuti nei corpi di Binki e Jelastine sono stati sparati da due fucili a bordo della Lexie, segnati però con le matricole di altri due fucilieri, Andronico e Voglino. Gli inquirenti non le possono presentare in tribunale finché la corte suprema non deciderà una volta per tutte se la Nia possa o non possa prendere parte ai lavori dell’accusa. Sta aspettando che il governo indiano porti le contro-obiezioni in aula e, salvo sorprese, non succederà prima del prossimo marzo.

“Ma allora se i fucili che hanno sparato, secondo l’India, sono di Andronico e Voglino, cosa ci fanno Latorre e Girone in India? Perché sono scesi loro dalla nave?”. “Bella domanda!”, commenterà il padre alzandosi a raccogliere i piatti, subito dopo aver detto al figlio di andare a prendere il panettone messo a scaldare sul calorifero. Finché il documento dell’accusa non verrà depositato, non potremo saperlo.

“Sì ma perché non presentiamo allora la richiesta di avviare la procedura di arbitrato internazionale? Ce l’abbiamo pronta, l’ha detto anche Gentiloni, cosa stiamo aspettando? Almeno così decide tutto un giudice terzo e la finiamo qui”, dirà una cugina al quinto anno di liceo, pronta a iscriversi a giurisprudenza.

I tempi dell’arbitrato però sono molto lunghi (almeno tre anni, secondo diversi giuristi) e, soprattutto, l’eventuale giudice terzo deciderà chi tra India e Italia avrà la giurisdizione del caso, non si pronuncerà sul fatto in sé. A quel punto, dopo tre anni, rischieremmo di essere ancora al punto di partenza. E questo la televisione non lo dice.

Se alla fine di questo articolo vi siete immaginati a litigare con mezza tavolata del vostro pranzo di Natale, potete fare una bella cosa: appena qualcuno minaccerà di introdurre il caso dei due fucilieri italiani come argomento di conversazione natalizia, esercitate il vostro diritto di opposizione e cambiate discorso.

Vi eviterete la pessima pantomima di volgarizzazione di un caso complesso e doloroso. Una vicenda dove ci sono due morti, Ajesh Binki e Valentine Jelastine, sistematicamente rimossi dal racconto in Italia, e due famiglie di due militari alla mercé di bieche strumentalizzazioni orchestrate da chi dice di volerli aiutare.

Almeno a Natale, non prestatevi a questo giochino stucchevole. Lasciate perdere.

Matteo Miavaldi, sinologo emigrato nel subcontinente indiano, è caporedattore dall’India e responsabile dell’Asia per l’agenzia d’informazione China Files. Nel 2013 ha pubblicato I due Marò. Tutto quello che non vi hanno detto (Edizioni Alegre).

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