Non è facile suicidarsi, almeno non sempre. Ne sa qualcosa quell’uomo armato di fune, pasticche, pistola e pietre. Quell’uomo un giorno si mette la fune intorno al collo, la lega alla ringhiera del ponte sopra il fiume, ingoia un flacone intero di sonniferi e si lancia dopo essersi riempito le tasche di pietre pesanti. Infine, dondolando nel vuoto con la fune al collo, estrae la pistola e si spara. Ma, ahimè, prende male la mira e centra la fune. Cade nel fiume, l’acqua fredda gli fa vomitare le pasticche e purtroppo il fiume è troppo basso per permettere alle pietre di farlo affogare.
Quel signore sfortunato somiglia incredibilmente al Partito democratico (Pd). Da dieci mesi a questa parte ce la mette tutta per fare fuori se stesso. Si era autorivitalizzato, alla fine di novembre del 2012, con delle primarie che avevano mobilitato ed entusiasmato la base, che nei sondaggi l’avevano catapultato al 35 per cento. Ma era troppo bello per essere vero.
È seguita una campagna elettorale surreale, da inserire nei manuali sotto la voce “votateci solo se proprio non ne potete fare a meno”. Moltissimi ne hanno fatto a meno: il Pd è crollato a un misero 25 per cento. Ma questa “non vittoria” era un
harakiri non del tutto compiuto. La coalizione tra democrats e Sel si era piazzata pur sempre come prima forza del paese, disponendo della maggioranza assoluta alla camera e di quella relativa al senato. Ma il rimedio si trova immediatamente. In fin dei conti il Pd dispone di una pletora di politici navigati che nelle settimane dopo le elezioni danno il meglio di sé.
Il vertice del partito si appresta a gestire in modo goffo e imbarazzato i tentativi di formare un “governo del cambiamento”. Ma il vero atto suicida arriva con l’elezione del presidente della repubblica. In un colpo solo una bella fetta dei gruppi parlamentari fa fuori sia il candidato Romano Prodi sia il segretario Pierluigi Bersani. Lo shock per la base del partito è profondissimo, nascono le iniziative Occupy Pd, ma soprattutto parte un’iniziativa silenziosa: centinaia di migliaia di ex iscritti che nel 2013 non rinnovano la tessera. Ma i capi corrente non si preoccupano troppo. Infatti nessuno sente il bisogno di chiarire chi fossero i famigerati 101 che nel segreto dell’urna avevano tradito Prodi. E nessuno dei 101 sente il bisogno di reclamare l’atto suicida.
E in ogni caso, malgrado l’impegno autodistruttivo profuso a piene mani, l’atto suicida non è ancora compiuto. Il Pd è sì fiaccato, tramortito, umiliato, ma resta in piedi grazie a una base (o quello che ne restaa) abituata negli anni a soffrire, a smaltire quasi ogni genere di catastrofi e cataclismi. Bene, avrà pensato qualcuno dei maggiorenti democratici, al peggio non c’è mai fine: un governo di larghe intese. Che c’è di meglio di un esecutivo fatto con le truppe berlusconiane per alienarsi elettori e attivisti?
Ma anche questa mossa va a vuoto e il Pd regge nei sondaggi. Però c’è un ulteriore rischio all’orizzonte: le cosiddette primarie (in verità si tratta dell’elezione diretta del segretario). Negli otto anni dal 2005 in poi le primarie sono sempre state l’occasione per una vasta mobilitazione di milioni di simpatizzanti, l’occasione per mostrarsi come un partito vivo e vivace (anche se poi puntualmente arrivava la leadership di partiti e coalizioni a smorzare gli entusiasmi con guerre di correnti, cordate, clan).
Anche questa volta poteva andare così: belle primarie, grande entusiasmo, nuova linfa, almeno per un po’ di giorni, fino a quando la irreprimibile voglia suicida non avrebbe avuto il sopravvento. Invece, colpo di genio: si è optato per una soluzione innovativa. Anche le primarie si possono trasformare da rito rivitalizzante in un ulteriore atto autodistruttivo. Detto fatto. Da giorni il Pd occupa le prime pagine di tutti i giornali. No, non veniamo a sapere il programma di Renzi o Cuperlo, Pittella o Civati. Invece siamo informati di uno strabiliante boom delle tessere (e nessuno dei leader del Pd ha osato tirar fuori una spiegazione che in altre circostanze sarebbe la più ovvia: “Che ci vuoi fare? Andiamo forte!”), di zuffe, pugni e schiaffi, di vetri infranti dei circoli Pd, di “dibattiti” al grido di “frocio!” e “fascista!”, di province dove nel dubbio si eleggono due segretari, uno per ognuna delle cordate in guerra.
“Episodi limitati”, potremmo dire. Ma è di secondaria importanza l’effettiva diffusione di questi fatti incresciosi. Conta molto di più il segnale dato al paese, agli elettori, soprattutto agli eroici iscritti. Loro da anni tirano la carretta, fanno le campagne elettorali, sacrificano ore e ore ai gazebo, nei circoli. Ora vengono a sapere che basta iscriversi all’ultimo minuto, magari grazie a un signore che paga un bel malloppo di tessere, per poter votare il segretario del circolo in congressi in cui il dibattito è abolito.
Se a qualcuno, malgrado i disastri degli ultimi mesi, ancora non fosse passata la voglia di militare nel Pd, passerà probabilmente adesso. L’ultima umiliazione ai democratici l’ha riservata Paolo Cirino Pomicino. Lui rifiuta i paragoni tra il Pd e la vecchia Democrazia cristiana, affermando, lievemente offeso, che la Dc era “un partito serio”. Ed è tutto dire.
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