27 maggio 2019 11:21

Ormai ci stiamo abituando: da un po’ di anni ogni elezione in Italia è una scossa tellurica, anzi un terremoto che incorona sempre nuove forze e uomini della provvidenza, seppellendo quelli idolatrati appena prima. Nel 2013 – elezioni politiche – abbiamo assistito all’irruzione dei cinquestelle sulla scena politica con il loro 25 per cento. È stata la fine di Pier Luigi Bersani, leader del Partito democratico (Pd), rimpiazzato da Matteo Renzi. Renzi, percepito come “il nuovo”, alle europee del 2014 aveva trionfato con il 41 per cento.

Ma il nuovo è invecchiato a una velocità impressionante. Dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 2016 il Pd renziano ha dovuto incassare la disfatta alle politiche del 2018, precipitando al 18,7 per cento.

Il nuovo uomo della provvidenza è diventato Luigi Di Maio. Con il Movimento 5 stelle ha totalizzato quasi il 33 per cento. Questo risultato gli ha permesso di formare il governo con la Lega di Matteo Salvini, a sua volta forte di un insperato 17 per cento.

Storie ballerine e fugaci
Ora, alle elezioni europee del 26 maggio, le forze di governo nel loro insieme hanno tenuto: arrivano pur sempre al 51 per cento. Ma ormai, e dopo appena un anno di governo, la prospettiva di un’Italia a cinquestelle sembra tramontata. Ora è il Movimento ad accusare una vera e propria disfatta, dimezzando i consensi e precipitando al 17 per cento, mentre la Lega balza al 34 per cento, regalandoci l’ennesimo uomo della provvidenza, Matteo Salvini.

In pochi anni gli italiani si sono stufati dell’ottimismo di Renzi che cozzava con la loro percezione pessimista del presente e del futuro

Potremmo limitarci a dire che a quanto pare gli innamoramenti politici dell’elettorato italiano sono diventati assai ballerini e fugaci. Ma guardando più da vicino ci accorgiamo che ormai da tempo assistiamo a un progressivo incattivimento dell’elettorato italiano, scoraggiato e sfiduciato da anni di crisi e dalla viva percezione del fatto che la politica non sembra in grado di imboccare vie d’uscita.

Matteo Renzi ha dovuto la sua ascesa alla promessa “cattiva” della rottamazione ma, rottamazione a parte, aveva puntato su un messaggio tutto sommato ottimista, sulla promessa che sotto la sua guida l’Italia sarebbe “ripartita”. Però, in pochi anni gli italiani si sono stufati di questo ottimismo che cozzava con la loro percezione profondamente pessimista del presente e del futuro.

L’ora di Salvini
Ed è stata la volta dei cinquestelle. Loro volevano rottamare non qualche vecchio leader di partito, ma tutta la “casta” politica insieme a tutto il sistema e mettere al centro i “cittadini”. E, una volta fatto il ripulisti, promettevano un paese più equo, più moderno, creando aspettative addirittura messianiche soprattutto nelle loro roccaforti del sud. Ma nulla hanno potuto contro la crescita asfittica, se non stagnante, dell’economia, perdendo in pochi mesi gran parte della fiducia che gli elettori avevano investito su di loro.

Ed è venuta l’ora di Matteo Salvini. Si è presentato a queste elezioni con un programma il più snello possibile, consistente giusto di due parole: “Prima l’Italia!”. Non ci volevano ulteriori spiegazioni: Salvini le dava nella veste di ministro dell’interno, presentandosi come il “cattivo” puro e semplice. La sua politica non vive tanto di promesse quanto di nemici, è fatta di “porti chiusi”, della criminalizzazione delle ong equiparate agli scafisti, di “difesa è sempre legittima”, di “castrazione chimica per i violentatori”.

Inutile spiegare a lui – e ai suoi elettori – che l’Italia è uno dei paesi più sicuri al mondo, che ormai da cinque anni il numero dei reati cala costantemente, che il paese con i suoi 330 omicidi all’anno si trova ampiamente sotto la Germania che raggiunge la cifra doppia.

Ma non contano i fatti, conta la sfiducia, lo sconforto dei cittadini di un paese che, unico in tutta la Ue, ha visto ridursi il pil pro capite da 27mila euro nel 2000 a 26mila euro nel 2018 (mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia è cresciuto del 25 per cento).

Il 26 maggio alle europee la destra italiana ha ottenuto il 50 per cento dei voti. Il Pd e l’M5s dovrebbero aprire una riflessione

Certo, Salvini è stato bravo a identificare il parafulmine del malcontento diffuso negli immigrati, nei criminali, in “Juncker, Merkel e Macron”. Ormai dispone, grazie al suo strabiliante successo, dell’opzione di far saltare il governo e andare a elezioni anticipate, ripresentandosi al fianco di Forza Italia e di Fratelli d’Italia.

Ma quell’alleanza non sarebbe affatto la riedizione del vecchio centrodestra. Sarebbe un’alleanza di destra e basta, di una destra inoltre incattivita, di una destra infine che non dispone di ricette su come fermare il declino dell’Italia. Certo, “prima l’Italia!”, ma un paese sotto la guida di Salvini rischierebbe di essere marginale in Europa e di rimanere strozzato peggio di prima dal suo debito pubblico.

Questa destra alle elezioni del 26 maggio ha totalizzato quasi il 50 per cento. Questo fatto da solo dovrebbe aprire una riflessione sia nel Pd sia nel Movimento 5 stelle. Nessuna di queste due forze da sola sarà in grado di fare da argine all’avanzata salviniana.

Per anni il Pd ha trattato i cinquestelle come il nemico principale. Ha fatto bene Nicola Zingaretti a correggere il tiro facendo la campagna elettorale in primis contro la Lega. A sua volta farebbe bene Luigi Di Maio a non identificare più nel Pd l’avversario principale dei cinquestelle. Farebbero infatti bene entrambi a guardare la Spagna dove il Psoe e Podemos hanno lasciato alle spalle vecchi rancori. Anche al Pd e all’M5s non rimane altra scelta che cominciare un – difficilissimo – dialogo se vogliono fermare Salvini.

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