20 maggio 2016 11:27

Shirin Ebadi, iraniana, 68 anni, premio Nobel per la pace nel 2003, ha pubblicato quest’anno la sua autobiografia, Finché non saremo liberi (in Italia è uscita per Bompiani, traduzione di Alberto Cristofori). Si tratta di un libro istruttivo e molto toccante.

Ebadi è stata la prima donna a ricoprire la carica di giudice nella storia dell’Iran, ma la sua vita è cambiata drasticamente dopo la rivoluzione del 1979. È stata costretta a lasciare la magistratura, e a causa del suo impegno per la difesa dei diritti umani e civili (in particolare a tutela delle donne e dei bambini, nonché offrendo assistenza legale gratuita ai perseguitati politici del suo paese) il regime iraniano ha cercato di ostacolarla in ogni modo: intercettando le sue telefonate, pedinandola, rendendo la vita impossibile a lei, ai suoi parenti, ai suoi collaboratori, ai suoi amici. Perquisizioni, artifici legali (il fisco iraniano pretende da lei centinaia di migliaia di dollari come tasse arretrate per il Nobel, pur essendo quel tipo di premi esentasse per la stessa legge iraniana), violazione dei diritti fondamentali, e infine anche violenza.

Così Shirin Ebadi ha dovuto abbandonare l’Iran. Da sette anni vive a Londra, da dove continua a lottare per le libertà democratiche del suo paese. Ho incontrato la signora Ebadi a Torino, in occasione del Salone del Libro. Le ho fatto un’intervista.

Di recente in Iran ci sono state le elezioni. C’è stata un’avanzata dello schieramento moderato-riformista che appoggia Rohani. Per la prima volta ci sono anche 18 donne in parlamento. Lei ha più volte detto che non bisogna lasciarsi ingannare, perché le elezioni in Iran non sono davvero libere e di conseguenza non potranno portare a un vero cambiamento. Pensa che sia ancora così dopo l’esito del voto?

Le cose in Iran cambieranno, ma non attraverso le elezioni. Pensi a Mohammad Khatami, che è stato presidente fino al 2005, prima dell’arrivo di Mahmud Ahmadinejad. Khatami era riformista, e anche il parlamento in quel periodo era a maggioranza riformista, eppure tutto questo non ha portato a nessun vero cambiamento. Il motivo è la costituzione dell’Iran, per la quale tutti i poteri davvero importanti sono in mano alla guida suprema, che è stato Khomeini fino al 1989, e da allora è Ali Khamenei. Il presidente della repubblica e il parlamento hanno pochissimi poteri, in confronto. Ecco perché l’esito di queste elezioni non sarà determinante.

Mi chiedo se potrà mai essere determinante la comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’Europa. I rapporti dell’occidente con l’Iran sono più rilassati rispetto a qualche anno fa. Sta finendo la stagione degli embarghi, il che attenua l’inutile sofferenza del popolo iraniano, ma potrebbe essere anche letto come un riconoscimento del regime. Mi sembra comunque che parte della nostra cordialità – penso all’Italia – sia dovuta agli interessi commerciali.

Vede, quando ci sono in ballo gli interessi economici, i diritti umani passano di solito in secondo piano. Sono rimasta molto meravigliata per ciò che è successo quando Rohani è venuto da voi in visita in Italia. Mi riferisco ovviamente alla decisione di coprire le statue dei Musei capitolini per non offendere non tanto la cultura islamica ma la sensibilità del regime. Perché di questo, in fondo, si trattava. Ed è questo ad avermi davvero spiazzato.

Signora Ebadi, le assicuro che ha spiazzato anche molti italiani.

La giustificazione di facciata è stata: rispettiamo la cultura dell’ospite islamico. Se però fosse davvero così, il rispetto dovrebbe essere reciproco, giusto? E allora spiegatemi perché, quando Renzi è andato a propria volta in visita in Iran, le donne italiane che lo accompagnavano, tutte le componenti della delegazione del vostro paese, avevano il capo coperto. Non solo. Anche gli uomini hanno sentito il bisogno di indossare le camicie all’iraniana! Quelle senza colletto, per intenderci. La morale che uno dovrebbe trarne è: voi italiani avete rispetto per la cultura iraniana ma non per la vostra cultura. Ma in realtà la spiegazione sta tutta da un’altra parte. Sa chi ci ha guadagnato in questo scambio di accortezze?

Torniamo ai soldi.

Esatto. Ci ha guadagnato qualche casa di moda italiana, che ha aperto le sue boutique a Teheran. E soprattutto ci ha guadagnato la Fiat, che ha stipulato un grosso contratto con l’Iran. Ha vinto la Fiat, dunque, non i diritti umani. Non il popolo iraniano. E nemmeno quello italiano. I diritti umani sono sempre la vittima, in situazioni come queste.

Lei è stata costretta ad abbandonare l’Iran. Suo marito è stato prima torturato e poi costretto ad accusarla in tv di avere tradito il suo paese. Sua sorella è stata arrestata. I suoi beni sono stati confiscati. Con un regime così brutale, è possibile una resistenza dall’interno?

Sì, è vero, sono stata costretta ad abbandonare il mio paese. E sì, mio marito è stato torturato. Mia sorella anche è stata torturata. E i miei beni, tutti i miei beni, sono stati confiscati. Eppure penso che la resistenza interna abbia ancora un grande ruolo. Un ruolo fondamentale. Se non ci fosse chi si oppone al regime, le cose andrebbero anche peggio di così.

Intendiamoci, quando parlo di resistenza mi riferisco sempre a una resistenza pacifica, non violenta. Ci sono molti insegnanti in carcere. Molti operai. Molte femministe dietro le sbarre. Se non ci fosse una vera resistenza, non ci sarebbe nessuno in carcere. Ed è proprio questo tipo di resistenza a rappresentare un freno e un limite per il regime.

A proposito delle donne. È più difficile lottare contro il maschilismo degli uomini, o contro l’idea maschilista del potere introiettata nelle donne?

Non sopravvaluti il maschilismo delle donne in Iran: è in gran parte un maschilismo di facciata. Le donne sono molto coscienti della brutalità del regime per ciò che riguarda le questioni di genere. Il maschilismo delle donne iraniane è molto, molto minore rispetto a quello delle donne del resto del Medio Oriente. C’è una grande consapevolezza dei problemi, c’è disagio tra le donne, ed è anche per questo che la situazione non potrà reggere troppo a lungo così com’è.

Dunque le donne come fattore di cambiamento. Lo sono anche i giovani? La preoccupa il fatto che i nati negli anni ottanta e novanta, a differenza delle iraniane e degli iraniani della sua generazione, non abbiamo avuto modo di vedere cosa c’era prima del regime, e che dunque non abbiano un vero termine di paragone?

Il 70 per cento della popolazione iraniana ha meno di 30 anni. E questo è per me un motivo di ottimismo, non di preoccupazione, perché vede… i giovani iraniani sono in realtà molto istruiti, molto interessati alla politica, e cercano di informarsi in tutti i modi possibili e immaginabili. È vero che non hanno avuto esperienza di cosa c’era prima della Repubblica islamica, ma hanno internet. Le informazioni, in un modo o nell’altro, arrivano. Arrivano a loro. I giovani in Iran hanno un’enorme importanza e io ho una grande fiducia in loro.

Lei che ora vive a Londra, cosa pensa dello stato di salute delle democrazie occidentali?

Dire “democrazie occidentali” è un concetto un po’ troppo vago…

Ha ragione. Mi riferisco all’Europa, così disunita su temi fondamentali.

Alcuni paesi europei c’è l’impressione che su certi temi stiano facendo marcia indietro. Il fatto è che la democrazia è come una pianta, va innaffiata tutti i giorni. Così rimane fresca e viva. Non le si può ad esempio dare una quantità enorme di acqua tutta in una volta e poi tenerla a secco per settimane o mesi. La si farebbe appassire. Io uso sempre questa immagine quando parlo di democrazia: chi dovrebbe “innaffiarla” sono soprattutto i cittadini. I cittadini come dovere non hanno mica solo quello di andare a votare.

I cittadini sono i veri guardiani della democrazia.

Proprio così.

Pensa che islam e diritti umani, civili, democratici, siano concetti compatibili?

Assolutamente sì. È l’interpretazione distorta dell’islam fornita dai regimi come quello iraniano a renderli incompatibili.

Cosa pensa di papa Francesco?

Mi piace molto. Non vedo l’ora di poterlo incontrare.

Come mai secondo lei a dispetto della brutalità del regime, sul piano artistico l’Iran è così vivace? Io sono molto impressionato per esempio dalla produzione cinematografica iraniana, così ricca e di grande qualità.

Ha visto? Sì, è un grande cinema. Quando c’è stata la rivoluzione, nel 1979, sono stati proibiti tutti i film stranieri, così il cinema iraniano si è trovato costretto a contare solo su se stesso. Questo, paradossalmente, ha fatto nascere una cinematografia assai particolare. I registi, e i produttori, nel tentativo volta per volta di evitare la censura, si sono fatti sempre più intelligenti. Mantenere alta la qualità, serpeggiando tra i mille divieti, cercando di farla franca: il tentativo è riuscito. Ovviamente tutto questo non sarebbe possibile senza la stupidità dei censori, che neanche si accorgono certe volte che un divieto non è stato proprio infranto, ma intelligentemente aggirato.

Tornando ai venti di cambiamento. Da dove soffieranno?

Dagli iraniani. Dal loro rappresentare un’eccezione nel mondo mediorientale, cioè dal loro desiderio di laicità. Il 90 per cento degli iraniani vuole uno stato laico. Glielo assicuro. Se fosse davvero possibile incidere attraverso le elezioni, il nostro paese diventerebbe laico all’istante. Questo, come dicevo, è in controtendenza rispetto a ciò che accade negli altri paesi del Medio Oriente. Ma è un dato di fatto che sotto lo scià gli iraniani erano molto più religiosi rispetto a oggi. Hanno visto a cos’ha portato un regime che in nome della religione ha fatto ciò che ha fatto (e che continua a fare), e questo magari non avrà intaccato in loro il sentimento religioso, ma la loro concezione dei rapporti tra stato e religione sì. La situazione, così com’è, non durerà. Il futuro dell’Iran parlerà la lingua del cambiamento.

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