14 aprile 2020 12:37

Oggi in Italia riaprono le librerie. Non succede in tutto il paese – i governatori di Lombardia, Lazio, Campania e Piemonte hanno deciso di prolungare il lockdown – e anche nelle regioni dove si potranno alzare le saracinesche molti esercenti hanno detto che non lo faranno: ai motivi di sicurezza sanitaria hanno aggiunto qualche dubbio sulla sostenibilità dell’iniziativa mentre a tanti italiani è ancora vietato spostarsi da un quartiere all’altro della stessa città.

Sui giornali e in rete c’è stato un vivace dibattito che, se da una parte dimostra quanto il tema appassioni, dall’altra rischia di eclissare una questione di maggiore portata. Ritengo che gli argomenti di chi vuole riaprire siano sensati quanto quelli di chi preferisce non farlo, ma sono anche convinto che questa sia l’occasione per un discorso più ampio. Non vorrei che si scambiasse, insomma, un analgesico per la cura, perché il vero problema è che l’intera filiera del libro rischia letteralmente di crollare su se stessa. Centinaia di famiglie si ritroverebbero in questo caso sul lastrico nei prossimi mesi, la cultura del nostro paese riceverebbe un danno epocale, e non sarà una riapertura anticipata a scongiurare ciò che, più che un pericolo, sta diventando una ragionevole certezza.

Non credo che quello del libro sia più importante di altri settori per la vita sociale, economica, democratica del nostro paese. Non credo, tuttavia, che sia meno importante. Di certo è uno dei comparti più compromessi dalla crisi. L’Associazione italiana editori ha rilevato un crollo del 75 per cento nel fatturato delle ultime settimane, il timido incremento delle vendite online non compensa minimamente ciò che si perde ogni giorno, l’uscita dei nuovi titoli è ferma, i piani editoriali (e industriali) ridimensionati se non stravolti, e un numero enorme di lavoratori e imprenditori non ha la più pallida idea di quale sarà il proprio destino. Ci sono stati, negli ultimi giorni, appelli meritori di varie associazioni di categoria, hanno parlato gli editori indipendenti (Adei), i librai (Ali), il gruppo Librai editori distributori (Led) e altre sigle, il ministro della cultura Dario Franceschini ha annunciato nel decreto di aprile uno spazio per i libri (è un buon segnale), ma tutto questo non ha prodotto ancora una premessa fondamentale se si vuole fronteggiare l’emergenza in modo energico, intelligente, strategico, democratico e solidale: l’immediata apertura di un tavolo di crisi tra le istituzioni e l’intera filiera del libro.

Superare le divisioni
C’è bisogno che le parti si parlino tra loro, discutano e – al di là delle cifre stanziate, che pure sono fondamentali – affinino strumenti d’intervento, misure ad hoc (ogni settore ha le sue peculiarità), verificandone in tempi brevi la praticabilità con i referenti istituzionali. Mentre il governo sta fronteggiando una spaventosa crisi sanitaria, e una partita complicatissima in Europa, dovrebbero essere insomma gli addetti ai lavori a farsi avanti, e dovrebbero farlo dando un segnale di unità mai visto prima. Editori, librai, distributori, bibliotecari – cui vanno riconosciuti moltissimi meriti per come hanno resistito in queste ultime stagioni – dovrebbero superare silenzi, diffidenze e ostilità reciproche (vedi la recente battaglia sugli sconti), portare il discorso al di là delle associazioni di categoria (ci sono tra l’altro importanti editori che non fanno parte di nessuna di esse), ammettere che in un periodo di crisi gli obiettivi che li uniscono sono più di quelli che li dividono, trovare pochi ma fondamentali punti cari a tutti e battere su quelli.

Alcuni motivi di divisione tra gli attori della filiera sono oggettivi (gli interessi di un grande gruppo editoriale divergono da quelli di un indipendente), ma non pochi altri hanno a che fare per così dire con il temperamento (un certo orgoglio o un non sempre ingiustificato amore per il quieto vivere, un sentimento autarchico o l’eccessiva fedeltà di corpo, soprattutto la difficoltà mostruosa e comprensibilissima, mentre si è impegnati a salvare se stessi, di pensarsi come parte di un tutt’uno). Ognuno dovrebbe dare il buon esempio. Insieme bisognerebbe spiegare alle istituzioni (nessuno più degli addetti ai lavori può saperlo) di cosa c’è davvero bisogno. Non ci siamo detti che essere migliori in questi giorni è addirittura un dovere? Non possiamo allora biasimare il triste spettacolo di egoismi incrociati di cui sono protagoniste le istituzioni europee se non riusciamo, ciascuno per il proprio, a fare diversamente.

Un settore rilevante
Nell’auspicio che un vero tavolo di crisi venga aperto al più presto, è bene capire però un po’ meglio di cosa stiamo parlando.

In termini di dimensioni, pur nella sua intrinseca fragilità, la filiera del libro (dalle case editrici alle librerie, dalle tipografie a tutto il mondo parcellizzato di traduttori, uffici stampa, agenzie di comunicazione, redattori, autori, grafici e così via) dà lavoro a tantissime persone. La sola editoria libraria (fonte Aie) muove un giro d’affari più grande di quello che si può immaginare, ben superiore a quello del cinema (di sette o otto volte), della musica (di dodici o tredici volte), così come supera di alcune centinaia di milioni il settore dei quotidiani e la tv pubblica se ci si limita al canone.

A differenza di altri settori culturali, tuttavia (alcuni dei quali, com’è sensato che sia, vengono in piccola o gran parte sostenuti dallo stato: senza soldi pubblici, per dire, il cinema italiano morirebbe), l’editoria vive prevalentemente sul mercato. Credo che questo sia un bene, perché se da una parte allontana la tentazione dell’assistenzialismo, dall’altra obbliga tutti a innovarsi di continuo, a non vivere di rendita. Questo però significa anche che, in situazioni come quella che stiamo vivendo, il mondo del libro è abbandonato a se stesso. Rigettare l’assistenzialismo non significa non auspicare un quadro normativo che dia impulso al settore in modo nuovo.

Se non è una crisi epocale l’occasione per bruciare le tappe e innovarsi, cosa può esserlo?

A dispetto del volume d’affari, l’editoria libraria è un settore in cui arricchirsi è l’eccezione e sopravvivere l’obiettivo primario. È inoltre un settore che per metà è retto da precari, partite Iva, lavoratrici e lavoratori praticamente a cottimo, persone che la cassa integrazione non sapranno mai cos’è, e che per vedersi pagare una fattura aspettano di solito il triplo del tempo previsto dai contratti.

È un settore in cui la grande professionalità non coincide con il livello retributivo (abbiamo in Italia una delle migliori scuole di traduzione al mondo, che è anche tra le peggio retribuite a livello internazionale), e a dispetto delle tante leggende che prosperano sull’ambiente (non tutte le case editrici sfornano bestseller, non tutti gli autori vincono lo Strega o il Campiello, in certi casi la qualità si trova ai margini), si tratta di un settore estremamente fragile sul piano economico. Un assurdo pregiudizio culturale impedisce di vedere che, non di rado, un lavoratore della filiera del libro guadagna meno di un operaio o di un bidello (uso volutamente due altri paradigmi retorici), ed è meno garantito.

L’ultima legge sul libro – al di là dell’animato dibattito sugli sconti da cui è stata circondata – riconosceva formalmente a questo settore un’importanza strategica per la coesione sociale e la vita democratica del paese. Non era un riconoscimento da poco, né senza conseguenze. Bisognerebbe ripartire anche da qui. Il ministro Franceschini aveva dichiarato che il provvedimento sarebbe stato propedeutico a una grande legge cornice da discutere e approvare nei prossimi anni. Credo che quello che sta accadendo imponga di trasformare quegli anni in mesi. Se è vero che l’editoria sopravvive solo sul mercato, è anche vero che, a livello normativo (quell’insieme di provvedimenti capaci di far volare i più capaci e proteggere i più virtuosi, fungendo da moltiplicatore per le tante energie sane che circolano nel settore), siamo indietro rispetto ad altri paesi europei. Se non è una crisi epocale l’occasione per bruciare le tappe e innovarsi, cosa può esserlo?

Infine. Nel 2023 l’Italia sarà il paese ospite alla più importante fiera editoriale del mondo, la Fiera internazionale del libro di Francoforte. Quello di Francoforte non è solo un appuntamento editoriale (nel 2017, ospite la Francia, la manifestazione è stata inaugurata da un discorso congiunto di Angela Merkel ed Emmanuel Macron), significa avere tutti gli occhi del mondo puntati addosso, e arrivarci con il settore a pezzi significherebbe perdere l’ennesima occasione storica.

Al di là degli onori formali, il paese ospite a Francoforte coglie l’occasione per mettere a punto, con anni di anticipo, un fondo di incentivi alla traduzione. Significa avere la possibilità di raddoppiare, triplicare, a volte decuplicare le traduzioni all’estero, il che se da una parte è d’aiuto all’intero comparto, dall’altra potenzia il soft power di quel paese nel mondo, e solo il cielo sa di quale sostegno reputazionale (se non attraverso l’arte e la cultura, attraverso cosa?) l’Italia avrà bisogno nei prossimi anni all’estero. Aggiungerò con dispiacere che sulla progettazione di un simile fondo – per competere non solo con la Francia o la Germania, ma con paesi come l’Argentina – siamo in grosso ritardo.

Continuiamo a ripeterci che ci rialzeremo, che andrà tutto bene, che all’ora più buia seguirà la rinascita. Se non si tratta di retorica – antidepressiva, disperata, opportunistica che sia – il momento di cominciare a farlo non è dopo un fantomatico ritorno alla normalità, ma adesso, in questi giorni, anche per il mondo del libro.

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