15 novembre 2007 00:00

I crimini commessi contro i palestinesi nei Territori occupati e altrove, soprattutto da quando l’anno scorso hanno votato “nel modo sbagliato” facendo vincere le elezioni ad Hamas, sono sconvolgenti. E gli unici sentimenti che provocano sono la rabbia e la voglia di reazioni estreme.

Ma questo non aiuterebbe le vittime. Anzi, probabilmente le danneggerebbe. Anche se è difficile rimanere impassibili di fronte a crimini così orribili – nei quali gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti – le nostre azioni devono adattarsi alle condizioni del mondo reale.

La conferenza di Annapolis sulla questione israelo-palestinese organizzata dal presidente Bush sta per cominciare, ed è la prima iniziativa diplomatica del suo governo che potrebbe portare a risultati concreti su questo tema. Idealmente, i negoziati di Annapolis dovrebbero partire dal punto in cui ci si era fermati a Taba, in Egitto, nel 2001.

Quella settimana fu l’unico momento, in trent’anni, in cui gli Stati Uniti e Israele abbandonarono l’atteggiamento di chiusura che in seguito avrebbero ripreso e mantenuto, in splendido isolamento, fino a oggi.

A Taba si era quasi arrivati a un possibile accordo sulla formazione di due stati, con un ragionevole scambio di territori. La scusa inventata per interrompere le trattative fu che i palestinesi avevano rifiutato la generosa offerta di Israele. In realtà, la conferenza fu interrotta improvvisamente dal primo ministro israeliano Ehud Barak, proprio quando i negoziatori stavano per raggiungere un accordo.

Forse a Taba si era quasi riusciti a trovare una soluzione perché gli Stati Uniti non facevano i mediatori. La politica di Washington verso Israele e la Palestina è sempre stata contorta.

“Fin dal 1967, quando Israele vinse la Guerra dei sei giorni e occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ogni amministrazione americana è stata ufficiosamente favorevole alla restituzione di quasi tutti quei territori per creare uno stato palestinese”, ha osservato un paio di mesi fa Leslie Gelb sulla New York Times Book Review. Vi prego di notare la parola “ufficiosamente”.

E perché non ufficialmente? Forse perché questa interpretazione conferma l’immagine confortante che gli Stati Uniti vogliono avere di se stessi come “onesti mediatori”, i cui nobili sforzi sono frustrati dall’atteggiamento violento e irrazionale degli altri, e in particolare dei palestinesi.

Sappiamo invece quello che Washington ha dichiarato pubblicamente. Ha sempre respinto una soluzione del genere, fin dal 1976, quando gli Stati Uniti hanno messo il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che suggeriva la creazione di due stati sulla base dei confini internazionali (Linea verde), confermando in sostanza una risoluzione precedente (la numero 242 del novembre 1967).

La soluzione dei due stati in base agli accordi quasi raggiunti a Taba ha ormai convinto tutto il mondo. Compresi i paesi arabi, che invocano la piena normalizzazione dei rapporti con Israele. Compreso l’Iran, che accetta la posizione della Lega araba.

Compreso Hamas, i cui leader hanno ripetutamente invocato la soluzione dei due stati, anche sulla stampa americana. Israele invece non ha mai ascoltato le richieste della comunità internazionale e gli Stati Uniti l’hanno sempre appoggiato.

George W. Bush è andato anche oltre, dichiarando che gli insediamenti illegali della Cisgiordania devono essere annessi a Israele. Ma la linea ufficiale statunitense rimane invariata: Bush, Condoleezza Rice e gli altri continuano a dire di voler realizzare il “sogno” di Bush di uno stato palestinese, e persistono nel loro nobile ruolo di “onesti mediatori”.

La condotta di Israele, però, parla da sola: gli insediamenti, il muro, le chiusure, i checkpoint, le confische di terre arabe e tutto il resto. E queste cose accadono anche mentre si avvicina la conferenza di Annapolis. “Se il governo continua ad agire in questo modo, la conferenza di Annapolis perderà significato prima ancora di cominciare”, scrive l’organizzazione pacifista israeliana Gush Shalom.

Qualunque proposta realistica deve prendere almeno come punto di partenza la soluzione dei due stati, in base alle linee generali stabilite a Taba. A quella conferenza sono seguiti dei negoziati informali che hanno portato a proposte più dettagliate, in particolare all’accordo di Ginevra del 2002, applaudito da quasi tutto il mondo ma respinto dagli Stati Uniti, che l’analista politico israeliano Amir Oren descrive come “il padrone che chiamiamo alleato”. Senza il sostegno americano Israele non può realizzare i suoi obiettivi espansionistici: e questo rende noi americani responsabili.

Nelle prossime settimane, e a più lungo termine, c’è molto lavoro di informazione da fare tra i cittadini statunitensi, che sono molto ricettivi su questi temi, anche se sono inondati dalla propaganda e dalle menzogne. Non sarà facile. Ma con l’impegno e la costanza sono state realizzate imprese anche più difficili.

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