Un ottimo sistema per far arrabbiare quasi tutti quelli che raccolgono fondi per le organizzazioni umanitarie è accennare alle “spese di gestione”. Appena le vene delle loro tempie smettono di pulsare e tornano a respirare normalmente, possono anche spiegarvi il perché della loro reazione.
Molte persone sono convinte che sia meglio donare agli enti benefici che tengono al minimo le loro spese di gestione: dopotutto, vogliamo che i nostri soldi aiutino i bambini affamati o i rifugiati siriani, non che servano a pagare il riscaldamento degli uffici o lo stipendio dei dipendenti delle organizzazioni di beneficenza.
Eppure, secondo molte di queste organizzazioni è un ragionamento sbagliato: quello che conta è quanti bambini affamati si riesce a salvare, e per ottenere risultati importanti spesso servono forti spese di gestione. Gli esperti studiano da anni il modo per aggirare questa diffidenza nei confronti delle spese generali, la cosiddetta overhead aversion, perciò è stato abbastanza sorprendente trovare sulla rivista Science uno studio che suggerisce una soluzione straordinariamente semplice.
Per convincere una persona a fare una donazione, invece di dirle che c’è uno sponsor importante pronto a versare centesimo per centesimo la stessa cifra che sarà raccolta, ditele che lo sponsor copre già le spese di gestione, e che quindi i suoi soldi saranno usati direttamente per agire sul campo. Questa piccola variante ha fatto aumentare le donazioni del 75 per cento.
A rigor di logica, questo non ha senso. Il denaro è fungibile, cioè non ha una funzione specifica: una volta che il nostro euro è finito sul conto corrente dell’organizzazione, è insensato promettere che sarà usato per acquistare un vaccino per il tifo. Eppure, questo atteggiamento assurdo nei confronti del denaro è abbastanza diffuso. Un esempio classico è quello del biglietto del cinema: se abbiamo deciso di spendere dieci euro per andare a vedere un film e perdiamo la banconota per strada è più probabile che andremo comunque al cinema che non se avessimo perso il biglietto già comprato e dovessimo ricomprarlo. Ma lo studio sulle spese di gestione mette in evidenza anche l’aspetto egoistico delle donazioni: quello che ci interessa non è tanto come sono spesi i soldi in generale, ma avere la soddisfazione di sapere che i nostri sono andati direttamente a chi ha bisogno.
Questa conclusione poco edificante è confermata da un altro studio, condotto dallo psicologo Paul Slovic e dai suoi colleghi dell’università dell’Oregon. Conosciamo già da tempo “l’effetto goccia nel mare”: le persone sono meno propense a dare in beneficenza se pensano che la loro donazione sia una minima parte di quello che servirebbe.
Ma Slovic e la sua équipe hanno indagato ulteriormente. Hanno mostrato ad alcuni dei partecipanti la foto di un bambino che poteva essere salvato dalla loro donazione, mentre ad altri hanno fatto vedere le foto di due bambini e gli hanno detto che con la loro donazione potevano salvarne uno. La vista del secondo bambino, che testimoniava i limiti della loro buona azione, ha fatto notevolmente scendere la cifra che dicevano di essere disposti a donare. A quanto pare, la vera gioia del dare sta nella sensazione egoistica di aver risolto un problema.
Mettendo insieme i risultati di questi studi, sembra proprio che spesso la beneficenza sia più una ricerca di gratificazione personale che non di risultati concreti. Se dovete fare una donazione, provate ad assumere un atteggiamento perverso: cercate un’organizzazione dedita a una causa che vi tocca il cuore, o per la quale potreste fare una grossa differenza, e poi date i vostri soldi a qualcun altro.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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