18 giugno 2019 12:42

Non c’è bisogno di passare tanto tempo in una città nella quale tutti suonano il clacson – New York o New Delhi, per esempio – per accorgersi che in pratica non serve a nulla. Gli automobilisti sono tutti bloccati nello stesso traffico, con lo stesso desiderio di procedere e la stessa impossibilità di farlo. Di sicuro, nessuno di quelli che suonano il clacson pensa che servirà a qualcosa e farà ripartire la fila, l’unica cosa che ottiene è un breve momento di sollievo catartico dalla sua rabbia perché non avanza più velocemente.

Questo è l’esempio più classico dell’epidemia di impazienza dei nostri tempi. Vorremmo che le cose andassero in un certo modo, ma quelle si ostinano ad andare nel senso opposto, quindi esprimiamo la nostra rabbia facendo rumore, infastidendo tutti quelli che ci stanno intorno per sentirci meno soli.

Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della pubblicazione di Sempre più veloce. L’accelerazione tecnologica che sta cambiando la nostra vita, dello storico della scienza James Gleick, che è stato il primo a farmi scoprire una cosa che negli ultimi decenni è diventata sempre più vera: più la vita accelera, più diventiamo impazienti.

Viviamo come se fossimo sul punto di diventare dèi, ma non ci arriviamo mai

Per logica, non dovrebbe essere così. Nel mondo della lavastoviglie e dei jet, grazie a tutte le ore che risparmiamo dovremmo avere più tempo per fare le cose che ci interessano veramente. Ma, in realtà, non abbiamo affatto questa sensazione. Anzi, ci innervosiamo per ogni minimo ritardo. Mano a mano che il tempo in cui vorremmo che fossero soddisfatti i nostri desideri si avvicina allo zero, ogni attesa diventa un affronto. Se sapessimo che un viaggio durerà all’infinito – come ai tempi dei mandriani medievali o dei passeggeri delle navi a vapore dell’ottocento – non ci faremmo tanto caso. È proprio perché le macchine ormai possono andare così velocemente che ci spazientiamo quando non lo fanno.

Rileggere Gleick oggi è inquietante, perché ha scritto quel libro prima che gli smartphone e la banda larga diventassero onnipresenti, e da allora le tendenze che individua hanno subìto una forte accelerazione. Online è facile sentirsi liberi dai vincoli della realtà, abbiamo la sensazione che potremmo essere chiunque, sapere tutto e visitare qualsiasi luogo del pianeta in un attimo. Perciò, ogni volta che ci rendiamo contro che non è così, ci sentiamo frustrati. Non è solo un problema di impazienza. La rabbia che spesso si scatena sui social network nei confronti di chi ha opinioni diverse dalle nostre tradisce la stessa indignazione: come osa sfidare il mio potere di fissare le regole? Viviamo come se fossimo sul punto di diventare dèi, ma non ci arriviamo mai. C’è poco da meravigliarsi se poi ce la prendiamo a male quando ci ricordano che non succederà.

Tutto questo ci aiuta a capire il fascino che esercita quello che viene erroneamente definito slow movement (il movimento lento), esemplificato da quei programmi televisivi che mostrano l’intero viaggio di due ore dell’autobus 830 che attraversa le valli dello Yorkshire, o quello del treno che impiega sette ore da Bergen a Oslo. Perché li definiamo “lenti”? L’autobus viaggia a velocità normale, e i treni norvegesi sono veloci. Ci ribelliamo a qualcosa di più profondo della lentezza: l’idea di lasciare che le cose impieghino il tempo necessario.

Anch’io me ne dimentico e mi innervosisco quando devo aspettare che mio figlio di due anni esamini con cura i cardini del cancello dei vicini. Il fatto non è che “lento è meglio”, è che la realtà ha i suoi tempi – a volte lenti, altre veloci – e arrabbiarci per questo è un modo sciocco e autolesionista di passare la vita.

Da rileggere

Nel suo libro del 1999 Sempre più veloce, James Gleick prende in esame la quasi universale “malattia della fretta” e il fatto che la nostra società sempre più efficiente ci spinge a essere sempre più impazienti e annoiati.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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