17 novembre 2012 13:54

È passato più o meno un anno dalle dimissioni di Silvio Berlusconi. In questi anni l’ex primo ministro è stato praticamente onnipresente nelle nostre esistenze. Siamo stati bombardati dalle opposte propagande che lo volevano in paradiso o all’inferno, senza mezze misure. L’idea di un documentario su Berlusconi in un primo momento mi ha sconcertato: “Ancora?”. Eppure S.B. Io lo conoscevo bene di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella, presentato al festival di Roma, riesce a darci un punto di vista che ancora non avevamo avuto. Quello di amici o ex amici di Silvio Berlusconi (tra loro Vittorio Dotti, Paolo Guzzanti, Giuliano Ferrara, Paolo Pillitteri e Tiziana Parenti), che lo raccontano per come l’hanno conosciuto e ci svelano la loro delusione nei suoi confronti. 

La delusione è quella di persone che hanno sperato in qualcuno che potesse veramente cambiare le cose in Italia, ma non ci è riuscito, perché non è stato capace di fare il salto di qualità da imprenditore di successo a uomo di stato, di mettere il bene della repubblica e l’interesse generale davanti al suo. L’atmosfera generale del documentario è piuttosto cupa e malinconica, anche perché in fin dei conti ci spiega come mai negli anni ottanta si stava meglio che adesso. E per uno che negli anni ottanta era adolescente questo è un concetto duro da mandare giù. Ma allo stesso tempo è innegabile: eravamo più ricchi, più sereni, forse meno consapevoli ma magari capaci di slanci di cui ora non saremmo più capaci. Il documentario si conclude con un’inquietante profezia di Paolo Pillitteri che ci dice che il berlusconismo è tutt’altro che finito e che ci vorranno tanti anni per toglierlo di mezzo.

Prima del documentario di Durzi e Fasanella ho visto uno dei due film a sorpresa della selezione in concorso Duzhan (Drug war) di Johnny To. Poliziesco asciuttissimo (anche troppo), pochissime (ma abbastanza gustose) concessioni al pubblico. Il conflitto è quello tra forze dell’ordine cinesi e trafficanti di eroina. Il meccanismo messo in piedi da Johnny To ha il pregio della geometria. Al centro ci sono un poliziotto e un criminale che decide di collaborare, apparentemente per evitare la pena di morte. Grazie al pentito questo commissario riesce a mettersi in mezzo tra fornitori di materia prima, la droga, e un grosso distributore, capace di far arrivare la roba in mezzo mondo in poche ore. Ma il pentito si lascia qualche via d’uscita e il commissario, che dimostra mille talenti (in particolare di attore e imitatore), si troverà preso in contropiede.

Marjane Satrapi è davvero una gran simpaticona. Il suo film, La band des Jotas, che ha scritto diretto e interpretato, si regge tutto intorno a lei, alle sue battute, a quello che sembra il suo modo di essere, più che quello del suo personaggio. In questo senso è irresistibile. Allo stesso modo è un film al limite del demenziale, che, nonostante il nome della sua autrice, avrà qualche difficoltà a guadagnarsi una distribuzione internazionale. Ma non si può mai dire.

Ultimo film che ho visto, Tutto parla di te di Alina Marazzi, inserito nella sezione XXI. Mescolando elementi documentari e una linea di fiction portata avanti da Charlotte Rampling, la regista affronta il tema della depressione post-parto, del peso, a volte insostenibile, da cui si possono sentire schiacciate le neomamme se non affrontano nel modo giusto la loro maternità. È un film tosto, a tratti sembra non lasciare speranze. Le grandi qualità dell’autrice sono confermate da una pellicola davvero originale nella sua costruzione. La cosa più inquietante, per me che non sono papà, sono state delle lunghe scene in cui l’unico sonoro è il pianto disperato di un bebè. È straziante naturalmente, ma su di me hanno avuto un effetto soporifero, il che non lascia ben sperare per una mia eventuale paternità. Ma anche qui non è il caso di fasciarsi la testa prima di essersela rotta.

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