09 marzo 2017 19:46

La luce sugli oceani di Derek Cianfrance è un drammone ambientato in un luogo sperduto, ma solo sulla carta. In realtà l’isola di Janus, dove il guardiano del faro Tom (Michael Fassbender) prova a costruirsi una vita decente dopo aver servito il suo paese (l’Australia) nella prima guerra mondiale, fa parte di una civilizzatissima comunità di cui il faro è una specie di fiore all’occhiello, una luce che guida l’umanità fuori dalle tenebre. Tom sposa Isabel (Alicia Vikander) e se la porta a Janus dove vivono una specie di idillio, finché la povera Isabel perde non uno ma due figli in gravidanza.

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Isabel sembra sul punto di rottura (e vorrei vedere), ma una barchetta con a bordo il cadavere di un uomo e una bambina appena nata approda sulla spiaggia e rilancia in qualche modo il loro idillio. Tom vorrebbe denunciare tutto alle autorità, ma Isabel gli prospetta un’altra possibilità: tenere la bambina e crescerla come fosse la loro figlia. Così fanno e passano alcuni anni felici. Ma la civiltà, con le sue leggi e le sue convenzioni, non è così lontana da Janus. Tom, quasi casualmente, s’imbatte nella vera madre della bambina (Rachel Weisz) e il senso di colpa s’insinua tra lui e Isabel.

Ci fermiamo qui. All’ultima Mostra del cinema di Venezia (sembra passato un secolo) La luce sugli oceani ha diviso il pubblico. C’è chi ha parlato di polpettone d’altri tempi, chi di dramma emotivamente straziante. Personalmente, anche se non è riuscito a coinvolgermi fino al midollo, non mi è dispiaciuto così tanto: ho trovato ottimo il cast, sia la coppia principale Fassbender-Vikander, che non a caso durante il film si è trasformata in coppia di fatto, e la terza incomoda Rachel Weisz, che raramente delude. E mi è piaciuta l’idea della società civile che in qualche modo solca inesorabilmente i mari per spezzare l’isolamento di Tom e Isabel. Cianfrance poteva sfruttare di più l’ambientazione, la forza della natura, ma ha sicuramente i suoi meriti. Come fa notare Anthony Lane sul New Yorker, è la seconda volta che durante la lavorazione di un film di Cianfrance i due protagonisti si fidanzano. Era successo a Ryan Gosling ed Eva Mendes durante la lavorazione di Come un tuono ed è successo a Michael Fassbender e Alicia Vikander, protagonisti di La luce sugli oceani.

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Il diritto di contare di Ted Melfi s’inserisce in un filone abbastanza fortunato del cinema statunitense. Racconta la storia vera, accaduta negli anni sessanta, di tre donne afroamericane Katherine Johnson (Taraji P. Henson, finalmente in un bel ruolo da protagonista), Dorothy Vaughn (Octavia Spencer, che in un film che parla di discriminazione negli anni sessanta ci sta per forza) e Mary Jackson (Janelle Monáe, che abbiamo già visto in Moonlight) e del loro fondamentale contributo a diverse missioni Apollo, quelle che hanno mandato gli astronauti americani nello spazio (e sulla Luna). Quindi abbiamo (non in quest’ordine) la corsa allo spazio, la discriminazione contro le donne e quella contro gli afroamericani e l’idea (che al cinema funziona bene) che negli anni sessanta si sono fatti tanti passi avanti sui quali adesso bisogna tenere altissima la guardia. Meglio ancora se tutto questo arriva attraverso un film piuttosto divertente. Un po’ di inevitabile retorica a stelle e strisce non pesa più di tanto sul risultato.

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Altro classico. La storia vera di un pugile, uno sportivo che ha visto la sua carriera messa a repentaglio da uno stupido incidente, e che non si è arreso. In Bleed. Più forte del destino, di Ben Younger, Miles Teller riempie un’altra casella della sua eclettica carriera. Interpreta Vinny Pazienza (detto Paz), campione del mondo dei pesi leggeri e dei super leggeri tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Miles Teller ci sta simpatico, e Bleed magari non è neanche così male, ma di film sulla boxe ce ne sono tanti e di Paz, invece, ce n’è solo uno, e non è un pugile. Una rockstar semmai.

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Rimanendo in zona classici. A me non era dispiaciuto il King Kong di Peter Jackson. C’era qualche eccesso di cgi (come le giocolerie di Naomi Watts e alcuni vermi carnivori) e il cast non era allo stesso livello di quello del remake delaurentisiano di John Guillermin (Jeff Bridges, Jessica Lange e Charles Grodin contro Adrien Brody, Naomi Watts e Jack Black: bel match ma secondo me vincono i primi). Ma la bestiona creata dai maghi del digitale faceva sembrare quella di Rambaldi una roba da carnevale di Viareggio (una per tutte la vertiginosa scena sull’Empire state building). E non solo. La Skull island del film del 2005 era davvero perduta nel tempo, restituiva da sola il senso di avventura che il reneferrettiano Denham di Jack Black troppo febbrilmente cercava di venderci un tanto al chilo. Non sembra male quindi l’idea di tornarci. In più in Kong. Skull island di Jordan Vogt-Roberts siamo negli anni settanta (cioè più o meno all’epoca di De Laurentiis e Guillermin), in compagnia di Tom Hiddleston e soprattutto Brie Larson, con cui si potrebbe andare tranquillamente ovunque. Là ci aspetta un altro Kong e chissà quante altre orribili bestie digitali.

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Autopsy, l’horror obitoriale di André Øvredal, si guadagna le sale e il trailer, mentre su Il padre d’Italia, di Fabio Mollo, con Isabella Ragonese e un tormentassimo Luca Marinelli, torneremo molto presto con un’Anatomia di una scena.

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