11 dicembre 2020 13:53

L’incredibile storia dell’isola delle Rose
Di Sydney Sibilia. Con Elio Germano, Matilda De Angelis, Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti, Leonardo Lidi, François Cluzet, Tom Wlaschiha. Italia 2020, 117’. Su Netflix.

Giorgio Rosa è un giovane ingegnere a cui le regole che altri hanno pensato per lui stanno un po’ strette (tipo quelle dei componenti della costituente, per intenderci). Così, forse anche per dimostrare alla ragazza di cui è innamorato che non è un fanfarone inconcludente, realizza un’isola al largo di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane, su cui fondare uno stato indipendente. La sua utopia liberale si scontra con le rigidità di un governo “balneare” che vuole a ogni costo togliersi questa piccola spina dal fianco.

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Sydney Sibilia e Francesca Manieri riscrivono una storia che nell’estate del 1968 si guadagnò un po’ di spazio sui giornali per poi sbiadire rapidamente. L’incredibile storia dell’isola delle Rose è un film divertente e generoso ambientato in un’Italia un po’ insolita. L’Italia di Diabolik e del Cynar più che quella del 1968 “ufficiale”, delle occupazioni e della contestazione. Mi piace pensare che Sibilia abbia messo il suo talento, la sua tecnica e la sua padronanza della commedia al servizio di una cartolina alternativa e diversa di un’epoca. La riscrittura della realtà storica, che forse può anche risultare una banalizzazione, sgombra il campo dalle gabbie ideologiche e dalle ombre della grande storia da cui l’autore e il suo personaggio sembrano volersi smarcare.

Quasi inutile sottolineare il talento di Elio Germano, alle prese con un personaggio al quale lui e gli autori sembrano togliere profondità quasi volutamente. Forse anche per non inciampare nel confronto con il vero Giorgio Rosa, la cui storia si può approfondire altrove. Matilda De Angelis funziona come “motore” della vicenda, anche se la sua presenza sullo schermo è un po’ sacrificata. Ultima postilla per due draghi come Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti nei panni di Franco Restivo e Giovanni Leone, protagonisti di alcuni momenti geniali del film. Se mai da L’incredibile storia dell’isola delle Rose dovesse nascere uno spinoff, lo vorremmo dedicato ai loro consigli dei ministri.

Mank
Di David Fincher. Con Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Tuppence Middleton, Arliss Howard, Charles Dance. Stati Uniti 2020, 131’. Su Netflix.

Uno dei film con cui Netflix punta decisamente sugli Oscar del 2021 è Mank di David Fincher. Gary Oldman interpreta Herman J. Mankiewicz, per gli amici Mank. Dopo un incidente d’auto è costretto a letto, ed è proprio a letto (sobrio e convalescente) che lo vuole Orson Welles. Solo così il talentuoso scrittore può mettere insieme la sceneggiatura di Quarto potere, assistito unicamente da una dattilografa e da un’infermiera. Attraverso una serie di flashback ci tuffiamo nella vecchia Hollywood, la Hollywood dei Selznick, dei Thalberg e dei Meyer.

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Per affrontare questo filmone bisognerebbe conoscere almeno un po’ la storia della Hollywood degli anni trenta del novecento: già prima del primo flashback si fa fatica a stare dietro alla raffica di attori, scrittori, produttori e personalità che ci vengono presentati, perché Mank a Hollywood conosceva tutti e tutti conoscevano Mank. Si esce frastornati dal giro per i corridoi della Mgm in cui Fincher ci accompagna. Mank sembra invece trovarsi perfettamente a suo agio in questo tritacarne laccato d’oro (anche se con l’aiuto di grandi quantità di alcol).

Spiritoso e brillante, anche tagliente, ma alla fine dei conti innocuo, Mank fa parte di quel mondo, è benvoluto da Louis B. Mayer, padre padrone della Mgm e da William Randolph Hearst (il magnate della carta stampata a cui è ispirato il Charles Foster Kane di Quarto potere). Mano a mano che procede la sceneggiatura del capolavoro di Welles, i flashback ci mostrano come il “giullare” Mank comincia a soffrire la vita di corte.

La regia di Fincher è perfetta, tecnicamente il film è impressionante (fotografia, costumi, musica, tutto), Gary Oldman è un gigante. Perché allora non gridiamo al capolavoro? Forse è il fatto che la sceneggiatura sia stata scritta tanti anni fa da Jack Fincher, giornalista e scrittore, padre di David. Non ha niente che non vada, ma sembra trasparire in qualche modo la comprensibilissima devozione del regista allo sceneggiatore. Ecco, forse il film manca di urgenza ed eccede in devozione. Senza contare che richiede molto allo spettatore che non conosce bene il manuale di storia di Hollywood, visto poi che i volti conosciuti (in termini di attori) sono pochi. Sarà bene rivederlo dopo aver ripassato.

Zombi child
Di Bertrand Bonello. Con Louise Labeque, Wislanda Louimat, Mackenson Bijou, Katiana Milfort. Francia 2019, 106’. Su Mubi.

Haiti, 1962. Un uomo è vittima di un rituale vudù: Clairvius muore, è seppellito e poi risorge schiavo in una piantagione di canna da zucchero, in mezzo ad altri morti viventi o, come scrive Jérémy Piette su Libération, “viventi morti”. Ai giorni nostri, in un esclusivo collegio parigino, Fanny convince le sue amiche a sottoporre la nuova arrivata Melissa, haitiana, a una specie di prova di ammissione per entrare a far parte di una sorellanza letteraria. Melissa rivela alle altre ragazze di essere orfana e di vivere con la zia, una mambo.

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Mentre Clairvius, facendo appello a delle schegge di memoria (il sorriso di una donna), fugge dalla piantagione, Melissa e le sue nuove amiche passano il tempo tra le lezioni, la mensa, i telefoni sempre accesi. La più inquieta è Fanny, che aspetta le vacanze per poter riabbracciare il suo amore segreto. L’entrata in scena della zia di Melissa, a cui si rivolge una Fanny disperata, avvicina e intreccia le due storie, e Zombi child di Bertrand Bonello si addentra definitivamente sul territorio sconosciuto e affascinante del vudù, dove si trasforma in un horror a bassa intensità.

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