10 maggio 2017 10:19

Con la comparsa la sera del 7 maggio sul palco del Louvre, a Parigi, dopo la sua elezione, sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, l’inno ufficiale dell’Unione europea, Emmanuel Macron ha fatto capire in modo chiaro la volontà di orientare il suo mandato verso una maggiore integrazione europea.

Ma se il candidato si è più volte espresso sulla sua scelta per l’Europa, sostenendo un rinnovamento dell’Ue in un’alleanza rivitalizzata con la Germania, si conoscono meno le sue posizioni sul resto della futura politica estera (d’altronde l’Europa non fa più parte della politica estera) e in particolare su uno degli aspetti principali, quello delle operazioni militari nel mondo.

Macron ha dato un’indicazione in un’intervista al sito francese Mediapart, l’ultima sera della campagna elettorale prima del secondo turno, probabilmente per inviare un messaggio ai diffidenti elettori di Jean-Luc Mélenchon.

Affinità non casuale
Due giorni prima della sua elezione, Macron ha dichiarato la sua volontà di inserirsi nella tradizione “francese gaullista-mitterrandiana” o “chirachiana” e ha rivendicato una vicinanza su questo punto con l’ex ministro degli esteri di Jacques Chirac, Dominique de Villepin.

Macron non avrebbe potuto essere più chiaro: “Sulla dottrina dell’uso della forza penso che negli ultimi dieci anni abbiamo troppo ceduto alla tendenza neoconservatrice, con interventi talvolta infelici. Penso alla Libia ma non solo. Vorrei tornare a una tendenza francese che definirei piuttosto gaullista-mitterrandiana o chirachiana. L’intervento armato ha un significato quando si inserisce in un progetto diplomatico”.

Al direttore di Mediapart Edwy Plenel, che gli chiedeva se fosse sulle stesse posizioni di De Villepin, che si è pronunciato in suo favore, il candidato di En marche! aveva risposto: “Certo, ha ragione a sottolineare quest’affinità intellettuale e concettuale in cui mi riconosco completamente”.

Non è casuale questa “affinità” con un uomo che critica gli interventi militari francesi nel mondo arabo-musulmano, e che li considera come “una delle grandi cause dei nostri problemi”.

De Villepin, rimasto nella storia per il suo discorso al Consiglio di sicurezza dell’Onu contro l’intervento militare americano in Iraq deciso dall’amministrazione Bush nel 2003, è sempre stato un acceso critico delle “opex”, quelle operazioni estere che si sono moltiplicate negli ultimi anni sotto la presidenza di Nicola Sarkozy e di François Hollande.

Macron non vuole seguire i sentieri battuti, ma può anche suscitare degli interrogativi o dei dubbi sulla coerenza finale del suo progetto

“Ci limitiamo a fare delle operazioni militari perché non sappiamo fare altro. È la sola leva a disposizione del presidente della repubblica francese”, ha detto De Villepin nel marzo del 2016. Un’affermazione sviluppata in seguito nel libro Mémoires de paix pour temps de guerre.

Di certo Macron non metterà subito fine alle operazioni all’estero in corso nel Sahel e in Medio Oriente, quanto meno per non indebolire le sue posizioni di fermezza nei confronti del terrorismo e dei gruppi jihadisti.

Il problema si porrà quando gli saranno sottoposte altre operazioni. In quell’occasione si vedrà se, come i suoi predecessori, cederà alla tentazione di ricorrere “all’unica leva che funziona”, o se privilegerà effettivamente altre strategie.

Ma questo riferimento concettuale a De Villepin non risolve tutti i problemi per capire in che direzione si muoverà Macron da presidente.

Allontanarsi dal decennio “occidentalista”
Infatti, come fa notare Plenel, Macron ha nella sua équipe un diplomatico esperto su posizioni diametralmente opposte a quelle di De Villepin, Gérard Araud, ancora per qualche giorno ambasciatore francese a Washington, e forse futuro consigliere diplomatico all’Eliseo. Araud è spesso descritto come un “neoconservatore” e Plenel ci fornisce anche il suo soprannome al Quai d’Orsay, “il capo della setta”.

La risposta di Macron è stata la seguente: “Sono un uomo aperto al dibattito, che apprezza la complessità. Non ho una posizione unica. È importante avere accanto persone con idee diverse e Araud è un grande diplomatico francese. Non condivido le sue posizioni su alcuni punti ma lo ascolto sempre. Ha una grande conoscenza del sistema dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma allo stesso tempo parlo anche con François Delattre (l’ambasciatore francese alle Nazioni Unite) che ha opinioni diverse”.

Grande utilizzatore di Twitter, Araud ha personalmente commentato questo scambio in un tweet: “La stampa francese è talvolta sconcertante, nessun giornalista si è preso la pena di chiedermi qualcosa prima di parlare di me o di screditarmi”.

In un tweet precedente, il 20 aprile 2017, Araud si descriveva così: “Contrario all’invasione dell’Iraq nel 2003, scettico sull’uso della forza, mi definisco come un realista”.

Questo uso di posizioni contrarie, questi rapporti e queste molteplici influenze sono senza dubbio il marchio di fabbrica di Macron, che non vuole seguire i sentieri battuti, ma che possono anche generare degli interrogativi o dei dubbi sulla coerenza finale del suo progetto.

In ogni modo una cosa oggi la sappiamo: con questi commenti Macron si allontana in modo evidente dalla politica estera seguita da Hollande e prima di lui da Sarkozy. Un decennio che De Villepin descrive come troppo “occidentalista”.

Quale sarà la portata di questo cambiamento? Dovremo ovviamente aspettare i primi passi del presidente sulla scena diplomatica per giudicare. Già alla fine di questo mese ci sarà il vertice della Nato a Roma, dove Macron incontrerà per la prima volta Donald Trump; cercheremo inoltre di capire la sua posizione nei confronti di Vladimir Putin, che l’8 maggio l’ha invitato a “superare la reciproca diffidenza”.

Una cosa è certa, Macron non arriva all’Eliseo senza aver riflettuto su questi temi, come dimostrano le risposte date alla vigilia della sua elezione. La portata di questi cambiamenti rimane però ancora tutta da definire.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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