08 maggio 2019 13:04

Venticinque anni fa il Sudafrica, finalmente libero dall’apartheid, viveva le prime elezioni a suffragio universale della sua storia. L’entusiasmo era tale che i seggi restarono aperti ben oltre l’orario previsto per accogliere gli elettori rimasti in fila per ore.

L’eroe di quel giorno si chiamava Nelson Mandela, un uomo che aveva trascorso un quarto di secolo in prigione per il suo ruolo alla guida dell’Anc, l’African national congress. Mandela sarebbe stato eletto presidente e, caso raro, avrebbe rifiutato un secondo mandato, convinto di aver compiuto la sua missione di portare il Sudafrica alla democrazia e scegliendo, arrivato alla soglia degli ottant’anni, di cedere il passo alla generazione successiva.

La saggezza del vecchio detenuto di Robben Island non è stata trasmessa ai suoi due successori, Thabo Mbeki e soprattutto Jacob Zuma. Nell’arco di due decenni, la cattiva gestione e una corruzione folle hanno compromesso lo sviluppo di un paese promettente, al punto da generare una profonda collera e una totale disaffezione da parte del popolo.

La mani sullo stato
Inizialmente Mandela avrebbe preferito come successore Cyril Ramaphosa, giovane avvocato e poi leader del sindacato dei minatori neri di cui aveva scoperto i talenti durante il negoziato con i dirigenti bianchi. Tra l’altro è a Ramaphosa che il Sudafrica deve la sua splendida costituzione.

Ma la direzione dell’Anc scelse i leader che avevano vissuto l’esilio alle figure interne. Thabo Mbeki, figlio di un ex compagno di cella di Mandela, è stato il primo presidente dopo il grande leader. Tuttavia le sue scelte economiche troppo liberali e la sua colpevole cecità rispetto alla pandemia di aids hanno causato i primi fallimenti della giovane democrazia. Mbeki è stato poi sostituito da Jacob Zuma, uomo di tutt’altro temperamento, ex capo dei servizi segreti dell’Anc in esilio, poligamo convinto e soprattutto incline a lasciare campo libero alla corruzione. È sotto il governo di Zuma che in Sudafrica si è cominciato a parlare di state capture, di mani sullo stato.

Ramaphosa può promettere al paese un nuovo inizio, di cui il paese ha un disperato bisogno

Un anno fa il paese ha rischiato l’implosione quando la portata della corruzione e dell’inefficienza è finita nel mirino dei mezzi d’informazione. A quel punto la direzione dell’Anc si è rivolta all’uomo della provvidenza, quel Cyril Ramaphosa a cui aveva voltato le spalle vent’anni fa.

Ramaphosa è un presidente popolare, ammirato per il suo ruolo storico e per il suo personale impero economico. È grazie a lui che oggi l’Anc può salvarsi e promettere un nuovo inizio. Il paese, tra il crollo dei servizi pubblici e la crescente disuguaglianza, ne ha un disperato bisogno.

Volendo guardare il lato positivo, possiamo sottolineare che la democrazia sudafricana funziona, che i contropoteri sono stati efficaci e che tre grandi correnti politiche si sfideranno alle urne. Se l’Anc vincerà ancora una volta, sarà la sua ultima occasione prima di un’inevitabile alternanza come conseguenza del fallimento. Questa è una parte dell’eredità di Mandela che gli è sopravvissuta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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