06 luglio 2020 10:08

Il 3 luglio un uomo di 61 anni si è suicidato in una strada del centro di Beirut, lasciando un messaggio in evidenza sul suo corpo. “Non sono un miscredente, è la fame che è una miscredente”, ha scritto l’uomo, riprendendo il ritornello di una canzone famosa in Libano. Con sé aveva anche il suo certificato del casellario giudiziario immacolato, per dimostrare che era una persona onesta.

Questo suicidio, seguito da altri due negli ultimi giorni, ha sconvolto i libanesi, travolti dalla rapidità e dalla portata della crisi economica e sociale del loro paese. Una crisi che dura ormai da mesi, che ha provocato una rivolta della popolazione e ha fatto cadere un governo, ma che continua a prolungarsi inesorabilmente.

Tutti gli indicatori sono in rosso. Il prezzo dei generi alimentari è aumentato del 55 per cento, la disoccupazione ha raggiunto quasi il 33 per cento della popolazione attiva, la valuta nazionale crolla e le interruzioni della corrente elettrica sono ormai la norma.

Un compromesso fallito
Questi sono solo alcuni elementi di una crisi che coinvolge tutti gli ambiti della vita in Libano. La classe media sta ricadendo nella povertà, mentre i poveri sprofondano nella disperazione.

È raro vedere un paese crollare senza che ci siano un conflitto armato, un blocco economico o un disastro naturale. Di sicuro il Libano si trova in una regione problematica e ne subisce le conseguenze, ma molti abitanti puntano il dito soprattutto contro il sistema e i leader politici, scelti su base confessionale.

La guerra civile che ha devastato il paese tra il 1975 e il 1990 si è conclusa con un compromesso che aveva permesso alle diverse fazioni religiose di spartirsi il potere e la torta economica. Questo compromesso storico si è trasformato in una rendita per la classe politica, a spese del paese, delle sue infrastrutture cadenti e della sua popolazione trascurata.

Il reportage di Davide Lemmi, Marco Simoncelli e Lorenzo Forlani


In autunno questo sistema aveva vacillato quando i libanesi di tutte le religioni sono scesi in piazza, anche nel sud dominato da Hezbollah. Ma il sistema resiste, soprattutto grazie alle implicazioni geopolitiche di una possibile marginalizzazione di Hezbollah, organizzazione vicina all’Iran.

Il governo libanese aveva deciso di chiedere l’aiuto del Fondo monetario internazionale nonostante le reticenze di Hezbollah, ma le discussioni sono a un punto morto e per il momento la mancanza di riforme impedisce l’arrivo degli aiuti economici.

Resta l’esodo dei libanesi più istruiti, che entrano a far parte della diaspora più consistente del mondo in rapporto alla popolazione, una diaspora che il 6 luglio manifestava a Parigi e Londra per chiedere un governo composto da personalità indipendenti.

“Nel Libano di oggi”, scrive la caporedattrice del quotidiano francofono di Beirut, L’Orient-Le Jour, “si notano una grande stanchezza, una grande collera e una grande aggressività. Ma anche, ed è piuttosto sorprendente, una grande compassione reciproca, di quelle che nascono tra i feriti gravi”.

Il Libano è un paese malato che sta vivendo un’agonia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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