16 ottobre 2020 10:31

Spesso i motivi diretti delle rivoluzioni possono sembrare insignificanti. A Beirut è stato l’annuncio di una tassa su WhatsApp a far scendere in strada la popolazione il 17 ottobre 2019, esattamente un anno fa.

Quel movimento è stato subito ribattezzato con l’epiteto di thawra, rivoluzione, perché per la prima volta i libanesi di tutte le confessioni, di tutte le provenienze e di tutte le età hanno espresso la loro frustrazione nei confronti del modo in cui il paese era gestito (o sarebbe meglio dire “non gestito”) da una classe politica predatrice.

Ma cosa resta oggi della thawra? La rivoluzione è stata fermata prima di compiersi. La classe politica, disprezzata da gran parte della popolazione, è ancora al suo posto, grazie alla sua capacità di resistere, all’importanza degli interessi minacciati e al contesto regionale che non favorisce il cambiamento, senza dimenticare il covid-19 che ha colpito duramente anche il Libano.

Dinastie politiche
Nel paese non si muove nulla e tutto peggiora, più di quanto avrebbero mai immaginato i libanesi, sconvolti dall’esplosione del porto di Beirut dello scorso 4 agosto. Anche in quel caso la collera e la disperazione non hanno portato a una rivoluzione.

Simbolo di questa impasse, l’uomo che potrebbe diventare primo ministro nei prossimi giorni è Saad Hariri, lo stesso che si era dimesso a causa della pressione della piazza un anno fa.

Anche la società civile non ha ancora trovato progetti alternativi né ha saputo trasformare la rivolta in rivoluzione

Hariri si presenta come un sostenitore dell’iniziativa politica lanciata in estate dal presidente francese Emmanuel Macron (che per altro non sta producendo frutti), ma in realtà è l’incarnazione delle dinastie politiche confessionali che regnano sul libano da decenni.

Il “sistema” ha fatto resistenza, in particolare sul fronte di Hezbollah, organizzazione filoiraniana con un’ala militare. Ma anche la società civile ha le sue responsabilità, perché non ha saputo far emergere progetti e strutture alternative (o forse non ne ha avuto il tempo) né trasformare una rivolta in una rivoluzione.

Il giornalista Anthony Samrani, dalle pagine del quotidiano francofono L’Orient le Jour, ha riassunto la debolezza del Libano, se non addirittura il fallimento della rivoluzione. Secondo Samrani, se qualcuno chiedesse ai libanesi se sono favorevoli alla rivoluzione, la risposta sarebbe inevitabilmente “Sì, ma…”: “ma non bisogna toccare il presidente cristiano”, “ma non bisogna toccare le armi di Hezbollah”, e via dicendo.

“Questo ma, o forse sarebbe meglio dire questi ma, perché ognuno ha il proprio, contengono tutte le contraddizioni politiche della società e tutto ciò che impedisce di trovare un’intesa su un progetto comune da parte della maggioranza dei libanesi”.

L’articolo di L’Orient le Jour si intitola “Perché la rivoluzione libanese non è (ancora) sbocciata”. La parola chiave, evidentemente, è “ancora”, perché gli attivisti, che non si considerano sconfitti, sono pronti a combattere sul lungo periodo e vedono il 17 ottobre soltanto come una prima tappa.

È possibile, ma resta il fatto che il sistema politico libanese, con le spalle al muro, si è rivelato più resiliente del popolo in collera. Il Libano è a pezzi, ma l’élite politica non si muove di un millimetro.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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