06 maggio 2021 10:13

Quando una regione così complicata e strategica come il Medio Oriente si muove, bisogna sempre cercare di comprendere la tettonica delle placche diplomatiche, soprattutto se gli attori regionali come la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Egitto e l’Iran cambiano orientamento e in ballo ci sono la pace e lo sviluppo economico.

Il processo è cominciato a gennaio, quando l’Arabia Saudita ha organizzato ad Al Ula un vertice dei paesi del Golfo più l’Egitto. L’evento ha segnato la riconciliazione con il Qatar mettendo fine a tre anni di screzi e al blocco imposto all’emirato dai paesi vicini per spingerlo a mettere fine alla sua azione a favore dei Fratelli musulmani e ai contatti con l’Iran. Il blocco è fallito, e gli avversari del Qatar non hanno ottenuto l’effetto sperato.

A quel punto il Qatar ha cominciato a ricoprire il ruolo di intermediario tra i suoi nuovi “amici” del Golfo e la Turchia. Bisogna ricordare che negli ultimi tre anni si è sviluppata una sorta di “guerra fredda” all’interno del mondo sunnita tra un fronte turco-qatariota e un’alleanza tra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto.

La scommessa di Erdoğan
Il punto cruciale dell’equazione è la Turchia. Come abbiamo sottolineato spesso, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si è lanciato in una diplomazia neo-ottomana, dalla Libia all’Azerbaigian passando per il Mediterraneo e la Siria. Erdoğan ha ottenuto alcuni successi, per esempio in Libia, dove ha fatto fallire un’offensiva contro Tripoli, o nella guerra dell’Azerbaigian contro l’Armenia, dove le sue armi hanno fatto la differenza.

Ma in questo momento la Turchia deve affrontare grandi difficoltà economiche, e i suoi rapporti con l’Europa e il suo tradizionale alleato americano sono piuttosto tesi. Erdoğan non ha digerito il recente riconoscimento del genocidio armeno da parte di Joe Biden.

Il presidente turco ha bisogno di voltare pagina, anche se dovrà ingoiare qualche rospo

La Turchia sta accelerando la ripresa dei rapporti, piuttosto tesi in quest’ultimo decennio, con l’Egitto e l’Arabia Saudita: con l’Egitto, dopo che l’esercito ha deposto il presidente Morsi, sostenuto dai Fratelli musulmani a cui è vicino il partito di Erdoğan, l’Akp; e con l’Arabia Saudita dopo l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita di Istanbul. Il presidente turco ha bisogno di voltare pagina, anche se dovrà ingoiare qualche rospo.

La pacificazione dei rapporti tra il campo saudita e l’alleanza tra Turchia e Qatar potrà avere conseguenze importanti. Per la Turchia significherà prima di tutto la fine del boicottaggio dei suoi prodotti, che l’anno scorso ha provocato una riduzione del 98 per cento delle esportazioni verso l’Arabia Saudita. Ankara ha sicuramente bisogno di questa boccata d’ossigeno.

Ma il punto in comune tra tutti questi paesi è un distanziamento dagli Stati Uniti, alleato comune di cui non si fidano più. “È importante tenere conto del trauma subìto dai sauditi”, quando l’Iran ha attaccato alcune strutture petrolifere nel 2019 senza che l’amministrazione Trump reagisse, sottolinea Fatiha Dazi-Héni, ricercatrice dell’Irsem, l’Istituto di ricerca strategica della scuola militare di Parigi.

Questo riavvicinamento tra le potenze sunnite del Medio Oriente potrebbe avere come effetto positivo la fine della guerra in Yemen, un massacro durato fin troppo.
Ma l’ascesa di questo “polo mediorientale” nel nuovo mondo multipolare non sarà certo favorevole ai diritti umani. È la realpolitik ad avvicinare questi paesi, non un progetto civico.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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