08 ottobre 2021 10:14

Nell’aprile scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha partecipato al funerale del capo di stato ciadiano, Idriss Déby, dando il suo benestare all’ascesa al potere del figlio del leader morto in combattimento. L’8 ottobre lo stesso Macron, a Montpellier, si rivolgerà direttamente ai giovani africani con i quali vorrebbe reinventare i rapporti franco-africani, scavalcando i despoti del continente.

Queste due immagini riassumono il dilemma della politica francese, intrappolata dalla pesante e ingombrante eredità della colonizzazione e soprattutto, paradossalmente, dell’epoca postcoloniale. Oggi la Francia non riesce a farsi capire quando afferma di voler cambiare le cose perché la realtà mostra il contrario. All’inizio del suo mandato, a Ouagadougou Macron aveva lanciato un appello ai giovani, presentandosi come un presidente troppo giovane per doversi assumere la responsabilità di un passato che la Francia fatica a lasciarsi alle spalle.

Quattro anni e molte disillusioni dopo, Macron ci riprova con il vertice di Montpellier, a cui non sono invitati i capi di stato, accompagnato dalle raccomandazioni di uno degli intellettuali africani più reputati, il camerunese Achille Mbembe, professore dell’università del Witwatersrand a Johannesburg.

Quale può essere l’impatto di questo incontro? Le percezioni e le immagini non cambiano da un giorno all’altro, e una conferenza non basta a trasformare una situazione così complessa. Sarà un percorso lungo per la Francia, che per il momento sembra avere davanti più difficoltà che carte vincenti.

La classe politica francese parla come se le parole dure e spesso razziste non influissero sull’immagine del paese

La principale difficoltà è che la Francia si rapporta con un’Africa che, a dirla tutta, ha contribuito a creare: l’Africa dei Paul Biya, l’autocrate del Camerun al potere dal 1982 – quando Macron aveva appena cinque anni – e dei Denis Sassou Nguesso, che contende a Biya il record di longevità.

In un’intervista concessa ad Antoine Glaser e Pascal Airaud, autori del libro pubblicato qualche mese fa in Francia Le piège africain de Macron (La trappola africana di Macron), il presidente cita Paul Biya. “Non interverrò militarmente per privarlo del potere”, dichiara Macron, prima di aggiungere: “Serviranno dieci anni per cambiare le cose”. Nel frattempo resta la sensazione che Parigi protegga gli uomini forti del continente.

Tra le proposte di Mbembe ce n’è una che potrebbe davvero cambiare le cose: la creazione di una struttura per l’assistenza alla società civile africana, in modo da aiutare i giovani più dinamici a realizzarsi indipendentemente dagli stati autoritari. Certo, comporta dei rischi, ma lo statu quo ne presenta almeno altrettanti.

Di un’altra difficoltà la Francia sembra poco cosciente: l’impatto dei dibattiti franco-francesi sull’immigrazione, l’identità e la storia. La classe politica francese parla come se nessuno all’estero la ascoltasse, come se le parole dure e spesso razziste non influissero sull’immagine del paese e come se si potesse tendere una mano all’Africa e tenerla a distanza con l’altra.

Un aneddoto personale: questa settimana a Parigi, ero in un taxi guidato da una persona originaria di un paese africano che ascoltava alla radio la litania dei discorsi xenofobi dei candidati alle prossime elezioni presidenziali, a cominciare da Eric Zemmour, di estrema destra. Ho chiesto stupito perché seguisse quelle trasmissioni: “Voglio sapere come parlano di noi”, mi ha risposto. Qualcosa su cui riflettere mentre ascoltiamo i bei discorsi di Montpellier.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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