02 aprile 2024 09:25

La sera del 31 marzo, in Turchia, si respirava un’aria di “autunno del patriarca”, per riprendere il titolo di un celebre romanzo di Gabriel García Márquez. Il patriarca in questione è Recep Tayyip Erdoğan, il presidente turco che, arrivato alla soglia dei settant’anni, ha subìto la sconfitta politica più cocente della sua lunga carriera. Paradossalmente questa delusione alle elezioni amministrative è arrivata ad appena dieci mesi di distanza da quando Erdoğan è stato confermato alla guida del paese. Dopo vent’anni al potere, quella vittoria aveva dimostrato che il capo del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp, conservatore e promotore dell’islam politico) non era ancora arrivato al capolinea.

Anche per questo la sconfitta incassata il 31 marzo dai candidati dell’Akp a Istanbul, Ankara e in molte altre città, compresa la roccaforte dell’Anatolia, è particolarmente significativa. Soprattutto a Istanbul, dove il presidente ha condotto personalmente la campagna elettorale e dove il candidato dell’Akp è stato staccato di dieci punti dal sindaco uscente Ekrem İmamoğlu, del Partito popolare repubblicano (Chp, socialdemocratico e laico).

In passato Erdoğan, ex sindaco della metropoli turca, aveva dichiarato che la vittoria a Istanbul era la chiave del trionfo nazionale. La sconfitta del suo partito, in questo senso, appare tanto più dolorosa. Le elezioni sono state locali e non nazionali, dunque non è il caso di sopravvalutarne la portata. Ciononostante il voto ci ricorda che, anche in un paese autoritario, il potere può vacillare e addirittura cadere.

Erdoğan appartiene alla categoria degli “uomini forti” che minano la democrazia cercando di ridurla a pura apparenza. Nell’arco di due decenni il presidente ha smantellato meticolosamente la libertà di stampa, ha sbaragliato l’opposizione parlamentare (di cui uno dei principali leader, Selahattin Demirtaş, è in carcere dal 2016), ha epurato i vertici dell’esercito, del sistema giudiziario e dell’istruzione e infine ha messo la museruola alla società civile. Il celebre filantropo Osman Kavala è detenuto da sette anni.

Eppure anche un leader onnipotente può incorrere in una battuta d’arresto, come dimostrano le elezioni amministrative che sembrano annunciare la fine di un regno, anche se a Erdoğan restano ancora quattro anni di mandato. Diversi fattori hanno giocato un ruolo rilevante: prima di tutto l’economia, con un’inflazione al 60 per cento e una politica finanziaria discutibile. Ma non possiamo dimenticare l’usura del potere e la corruzione che ne deriva. In questo contesto è indispensabile distinguere tra un regime diventato dittatoriale – come quello di Vladimir Putin, che ormai affronta le elezioni senza il minimo rischio – e i regimi autoritari o illiberali, che lasciano un margine di manovra all’opposizione politica.

La Polonia, conquistata nel 2015 dagli ultraconservatori di Diritto e giustizia (Pis), ha seguito il metodo Erdoğan imponendo il proprio controllo sui mezzi d’informazione e sulla giustizia, nel tentativo di garantire la propria longevità. Ma a ottobre il partito di governo è stato battuto dai liberali guidati dall’ex leader europeo Donald Tusk. In Brasile, l’anno scorso, il bilancio pessimo del governo ha permesso a Lula di sconfiggere Jair Bolsonaro, che ha tentato un colpo di mano per restare al potere.

Le pressioni internazionali, come quelle che l’Europa ha esercitato sulla Polonia in passato e sull’Ungheria in tempi recenti, permettono alla democrazia di sopravvivere e mantenere in vita la possibilità di un’alternanza. È il significato della vittoria dell’opposizione repubblicana in Turchia. Per riprendere la metafora di Gabriel García Márquez, siamo davanti a un “autunno” che annuncia la possibile fine del potere di Erdoğan.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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