È una guerra dimenticata di cui quasi nessuno parla. Il Sudan, grande quattro volte la Francia e sei volte l’Italia, vive da quasi due anni un conflitto civile devastante.
Lo scontro non accenna a placarsi. Il 14 gennaio Omdurman, grade città carica di storia che fa parte dell’area metropolitana della capitale Khartoum, è stata violentemente bombardata, causando 120 morti e un gran numero di feriti. Queste vittime si aggiungono alle decine di migliaia di persone uccise nell’indifferenza del resto del mondo.
La stessa indifferenza caratterizza evidentemente i due generali che si contendono il potere. Il risultato è un paese distrutto: più di tre milioni di persone sono fuggite negli stati confinanti, mentre altri milioni di sudanesi sono sfollati all’interno del loro paese. Le organizzazioni umanitarie lanciano regolarmente l’allarme. Secondo l’Unicef, in Sudan tre milioni di bambini sono a rischio di malnutrizione grave.
Come spesso succede nelle guerre, anche in Sudan è difficile fare distinzioni tra buoni e cattivi: in passato i due generali si erano accordati per fare un colpo di stato e mettere fine a una delle esperienze democratiche più audaci del continente. Ma in un colpo di stato due leader sono troppi. E la rivalità era inevitabile.
Se questa guerra non sembra avere fine è per due motivazioni principali. Prima di tutto, nessuna delle due parti è in grado di prevalere sull’altra. Né l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan né le Forze di supporto rapido (Rsf), un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, riescono a imporsi.
Il secondo fattore sono le ingiustificabili ingerenze straniere. La comunità internazionale si limita a inviare “aiuti umanitari”, ma la verità è che alcune potenze straniere fanno di tutto per prolungare i combattimenti.
Gli Emirati Arabi Uniti sono impegnati attivamente al fianco della milizia di Hemetti, accusato di crimini di guerra, con cui da tempo intrattengono rapporti: durante la guerra nello Yemen, Hemetti aveva mandato i suoi uomini a combattere a fianco della coalizione di cui fanno parte anche gli Emirati. L’Egitto, invece, supporta l’esercito di Al Burhan, che conserva una parvenza di legittimità. In precedenza anche la Russia era presente in Sudan con i mercenari del gruppo Wagner (alleati di Hemetti), e si dice che oggi abbia un rinnovato interesse per il Sudan dopo la caduta del suo alleato in Siria, Bashar al Assad.
Quando i due generali hanno cominciato ad affrontarsi a Khartoum, gli Stati Uniti hanno tentato invano di mediare. Al momento il conflitto coinvolge tutto il paese, a cominciare dal Darfur, teatro di massacri ai tempi della dittatura di Omar al Bashir, caduta nel 2019. Con lo scoppio di questa nuova guerra civile il sangue ha ripreso a scorrere in questa regione martoriata.
Se esistesse una comunità internazionale degna di questo nome, cercherebbe quanto meno di bloccare le ingerenze straniere e il flusso di armi che arriva nel paese.
Ma la possibilità di un’azione collettiva di questa portata non esiste più, perché oggi viviamo in un mondo governato dai rapporti di forza. L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca di certo non migliorerà la situazione.
Nel 2019 i sudanesi avevano sorpreso il mondo rovesciando pacificamente una dittatura islamista. Ma poi i due generali assetati di potere hanno trascinato il paese nella tragedia. Oggi 44 milioni di persone ne pagano il prezzo, altissimo. E il mondo intanto osserva impotente, o ancora peggio, indifferente.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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