18 settembre 2020 14:46

Questo articolo è stato pubblicato il 1 maggio 2008 sul numero 742 di Internazionale.

Ancora non capisco come mai io e Sallie siamo finite a quella festa vicino ad Aspen, in Colorado. Gli invitati avevano un atteggiamento elegante e annoiato, ed erano tutti più grandi, al punto che noi, due quarantenni, eravamo le ragazze della serata. La casa era uno chalet stile Ralph Lauren, una lussuosa baita di montagna a tremila metri con tanto di stufa a legna, corna d’alce alle pareti e tappeti ovunque. Ce ne stavamo per andare quando il padrone di casa ci ha chiesto di restare per fare due chiacchiere. Era un uomo imponente e con un sacco di soldi.

Quando gli altri ospiti si sono allontanati nella notte estiva, ci ha fatto accomodare intorno a un tavolo di legno grezzo. Poi mi ha detto: “Allora, ho sentito che ha scritto un paio di libri”. “A dire il vero ne ho scritti molti”, ho risposto. E lui, con lo stesso tono di chi incoraggia una bambina di sette anni a raccontargli come vanno le lezioni di flauto, mi ha chiesto: “E di cosa parlano?”. I primi sei o sette erano su argomenti diversi, così gli ho detto che l’ultimo (in quell’estate del 2003) era River of shadows: Eadweard Muybridge and the technological wild west, un libro sull’annichilimento del tempo e dello spazio e l’industrializzazione della vita quotidiana. Appena ho nominato Muybridge mi ha interrotto: “Ma lo sa che quest’anno è uscito un libro molto importante su Muybridge?”.

Mi stava incastrando nel ruolo dell’ingenua e per un attimo ho pensato davvero di essermi persa un libro sullo stesso argomento del mio. Intanto il tizio aveva cominciato a parlarmi di questo testo molto importante con lo sguardo compiaciuto tipico degli uomini che pontificano, perso nell’orizzonte lontano della propria presunzione.

Premetto che la mia vita è stata piena di uomini adorabili, di tanti editori che fin da giovane mi hanno ascoltata, incoraggiata e pubblicata. Ho un fratello minore infinitamente generoso e amici meravigliosi che “volentieri imparano e volentieri insegnano”, come il Chierico dei Racconti di Canterbury di Chaucer.

Ma ci sono anche altri tipi di uomini. Mister Molto Importante continuava con aria compiaciuta a parlare del libro che avrei dovuto conoscere, quando Sallie l’ha interrotto per spiegargli che si trattava del mio libro. O quantomeno ha provato a interromperlo, ma lui non l’ascoltava. Ha dovuto ripeterglielo tre o quattro volte prima che gli entrasse in testa. Poi, come in un romanzo dell’ottocento, lui è rimasto di sasso. E così ero l’autrice del libro molto importante che lui in realtà non aveva mai aperto, ma di cui aveva letto una recensione sulla New York Times Book Review qualche mese prima: questo fatto gli ha confuso a tal punto le categorie in cui incasellava il mondo che è rimasto per un attimo senza parole, prima di ricominciare a sputare sentenze. A quel punto, con un’educazione tutta femminile, ci siamo prima allontanate e poi siamo scoppiate a ridere come matte.

Senza parole
Sì, gli uomini se la prendono anche con i libri di altri uomini, e anche le donne vanno agli eventi mondani per pontificare su argomenti insulsi e teorie del complotto. Ma la sicurezza assoluta che gli ignoranti più totali ostentano nelle conversazioni è – lo dico per esperienza – una questione di genere. Gli uomini pretendono di spiegare le cose a me e alle altre donne, anche quando non sanno di che stanno parlando. Alcuni uomini.

Le donne sanno a cosa alludo. A quella presunzione che a volte ci mette in difficoltà, che ci impedisce di esprimerci e di farci ascoltare, che condanna le più giovani al silenzio, proprio come le molestie per strada. Ci abitua a dubitare di noi e allo stesso tempo rafforza negli uomini un’ingiustificata fiducia in se stessi. Non mi sorprenderebbe scoprire che la traiettoria della politica americana dal 2001 in poi sia stata in parte condizionata dalla incapacità di dar retta a Coleen Rowley, la donna dell’Fbi che per prima aveva avvertito di stare in guardia da Al Qaeda. Una cosa è certa, invece: questa traiettoria è stata pianificata dall’amministrazione Bush, che non ha voluto ascoltare nessuno, nemmeno chi diceva che l’Iraq non aveva legami con Al Qaeda né armi di distruzione di massa e che la guerra non sarebbe stata un gioco da ragazzi.

Forse quest’arroganza ha avuto qualcosa a che fare con la guerra. Ma contro la presunzione degli uomini le donne devono fare la guerra tutti i giorni, una guerra anche con se stesse, con la convinzione di essere superflue, con gli inviti al silenzio. È qualcosa da cui, nonostante il mio discreto successo sul lavoro, non mi sono ancora liberata. Dopo tutto, durante la festa ad Aspen stavo quasi per lasciare che mister Importante e la sua presuntuosa arroganza avessero la meglio sulle mie vacillanti certezze.

Nella vita ho avuto molte conferme del mio diritto di pensare e parlare, più di quante ne abbiano avute tante altre donne. E ho imparato che un po’ d’incertezza è un buon mezzo per correggersi, capire e progredire. Quando è troppa, però, può diventare paralizzante, mentre la totale fiducia in se stessi produce idioti arroganti come quelli che ci hanno governato dal 2001. C’è un giusto mezzo tra questi estremi verso cui i generi sono stati spinti, una tiepida cintura equatoriale di compromesso e di scambio in cui tutti dovremmo ritrovarci.

Situazioni più drammatiche della nostra esistono per esempio in Medio Oriente, dove alla testimonianza delle donne non è riconosciuto nessun valore legale, al punto che una donna non può denunciare una violenza se non c’è un uomo che testimoni contro lo stupratore. Ed è raro che ci sia.

Nessun uomo si è mai scusato per le sciocchezze che ha detto su argomenti che io conoscevo e lui no

La credibilità è uno strumento essenziale di sopravvivenza. Quando ero molto giovane e cominciavo a capire cos’era il femminismo e perché era necessario, avevo un fidanzato che era nipote di un fisico nucleare. Una volta a Natale suo zio ci raccontò, come fosse un aneddoto divertente, che la moglie di un vicino, nel suo quartiere di costruttori di bombe, era uscita nuda di casa nel cuore della notte gridando che il marito voleva ucciderla. Gli chiesi come faceva a sapere che il marito non aveva realmente provato a ucciderla e lui mi spiegò pazientemente che si trattava di persone rispettabili. Perciò l’ipotesi del “marito che voleva ucciderla” non era una spiegazione credibile per il comportamento di quella donna. Mentre l’idea che forse era matta…

Negli Stati Uniti circa tre donne al giorno vengono uccise dai mariti o dagli ex mariti. È una delle principali cause di morte per le donne incinte di questo paese. Il femminismo ha dovuto lottare per ottenere il riconoscimento che lo stupro, lo stupro commesso da persone che si frequentano, lo stupro coniugale, la violenza domestica e le molestie sessuali sul lavoro sono dei reati. E per riuscirci ha avuto bisogno innanzitutto di rendere le donne credibili.

Le donne hanno acquisito lo status di esseri umani quando questi comportamenti sono stati finalmente presi sul serio, dalla metà degli anni settanta in poi, molto dopo la mia nascita. E per chi pensa che le intimidazioni sessuali sul lavoro non siano questioni di vita e di morte, ricordo che Maria Lauterbach, 20 anni, soldato scelto dei marines, è stata uccisa l’inverno scorso da un suo superiore mentre era in attesa di testimoniare contro di lui in un processo dove era accusato di stupro. Era incinta. I resti bruciati del suo corpo sono stati trovati nel cortile di casa sua a dicembre.

Sentirsi ripetere di continuo che un uomo sa di cosa parla e una donna no, per quanto possa essere solo un dettaglio in una conversazione, perpetua la bruttezza di questo mondo e lo mantiene nell’oscurità.

Dopo l’uscita del mio libro Storia del camminare, nel 2000, ho scoperto di sapermi difendere meglio dagli attacchi alle mie impressioni e alle mie interpretazioni. All’epoca mi è capitato due volte di contestare un uomo e di sentirmi rispondere che le cose non erano andate affatto come dicevo io e che ero una paranoica, nevrotica e disonesta, in poche parole: una donna. In altri momenti della mia vita avrei dubitato di me stessa e mi sarei tirata indietro. Avere un riconoscimento pubblico come studiosa di storia mi ha aiutato a mantenere le mie posizioni. Ma poche donne hanno questo vantaggio, mentre miliardi di donne su questo pianeta di sei miliardi di persone devono sentirsi dire che non sono testimoni credibili della loro vita e che la verità non gli appartiene né ora né mai. Questo è molto peggio di un uomo che pretende di spiegarti le cose, ma fa parte dello stesso arcipelago di arroganza.

Eppure gli uomini continuano a spiegarmi le cose. E nessun uomo si è mai scusato per le sciocchezze che ha detto su argomenti che io conoscevo e lui no. Non ancora. Secondo il calcolo delle probabilità, dovrei vivere altri quarant’anni, più o meno, prima che possa succedere. Ma non sto certo trattenendo il fiato.

Una guerra su due fronti
Qualche anno dopo l’incontro con il cretino di Aspen sono andata a Berlino per una conferenza. In quell’occasione Tariq Ali (lo scrittore marxista) mi ha invitato a cena insieme a uno scrittore, un traduttore e tre donne più giovani di me, rimaste in ammirazione e in silenzio per quasi tutta la sera. Tariq è straordinario. Ma quando ho parlato di Women strike for peace – un gruppo eccezionale e poco conosciuto di attiviste contro il nucleare e la guerra nato nel 1961 – e ho detto che aveva contribuito alla fine della caccia contro i comunisti portata avanti dalla commissione sulle attività antiamericane (Huac), mister Molto Importante II ha cominciato a sghignazzare.

La Huac, insisteva, nei primi anni sessanta non c’era ancora e nessun gruppo di donne aveva mai avuto un ruolo simile nella sua caduta. Ostentava un disprezzo così devastante e una sicurezza così aggressiva che discutere con lui sembrava un esercizio inutile e un modo per farsi insultare di più. All’epoca avevo scritto forse nove libri, tra cui uno che raccoglieva testimonianze e interviste su Women strike for peace. Ma gli uomini che pretendono di spiegarmi le cose pensano che io sia una specie di contenitore vuoto da riempire con la loro saggezza e la loro erudizione. Un freudiano pretenderebbe di sapere cos’hanno loro e cosa manca a me, ma l’intelligenza non sta in mezzo alle gambe, neanche se uno sa scrivere con il pisello le frasi melliflue di Virginia Woolf sulla delicata sottomissione delle donne. Al ritorno in albergo ho googlato un po’ e ho scoperto che Eric Bentley nella sua ultima storia sulla Huac afferma che Women strike for peace ha avuto un ruolo cruciale nella caduta della commissione. Nei primi anni sessanta.

Ho raccontato questo scambio di opinioni in un articolo uscito su The Nation, anche per smascherare uno degli uomini più sgradevoli che abbiano mai cercato di spiegarmi qualcosa: caro, se mi stai leggendo sappi che sei un brufolo sulla faccia della terra e un ostacolo alla civiltà. Vergognati.

La battaglia contro gli uomini che vogliono spiegare le cose ha calpestato molte donne della mia generazione, della nuova promettente generazione di cui abbiamo tanto bisogno, qui e in Pakistan e in Bolivia e a Giava. Per non parlare delle innumerevoli donne che sono venute prima di me e non avevano diritto ad andare in laboratorio o in biblioteca, a conversare, a fare la rivoluzione e nemmeno a essere considerate esseri umani.

Dopo tutto Women strike for peace era stata creata da donne che erano stanche di fare il caffè e battere a macchina, di non avere nessuna voce in capitolo e nessun ruolo decisionale nel movimento contro il nucleare degli anni cinquanta. La maggior parte delle donne combatte una guerra su due fronti: da un lato per difendere le proprie opinioni, dall’altro per il diritto di parlare, avere idee, essere ritenuta credibile, imporsi come essere umano. Le cose sono migliorate, certo, ma non basterà una vita per vedere la fine di questa guerra. Sto ancora lottando per me, ma anche per le donne più giovani che hanno qualcosa da dire, nella speranza che riescano a dirlo.

(Traduzione di Jamila Mascat)

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Questo articolo è stato pubblicato il 1 maggio 2008 sul numero 742 di Internazionale.

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