20 giugno 2016 17:34

“Che aspetto ha una città bombardata?”, chiese Pablo Picasso. “Quello di una cristalleria in cui si è mosso un elefante”, rispose il poeta Juan Larrea. Era il 1937 e Larrea aveva chiesto al pittore spagnolo di dedicare un’opera a Guernica, la città appena rasa al suolo dai bombardamenti dei nazisti che sostenevano la dittatura di Francisco Franco. L’opera sarebbe andata in mostra all’esposizione internazionale di Parigi.

Guernica aveva 5.630 abitanti. La sua distruzione doveva avvenire il 20 aprile del 1937, come regalo per il compleanno di Adolf Hitler, ma per problemi logistici fu rimandata di una settimana. Il numero delle vittime è ancora oggi oggetto di discussione: mentre il governo basco ne dichiara 1.654, recenti studi parlano di duecento o trecento vittime.

I tunnel, a Rafah, distrutti dall’esercito israeliano dopo che il sergente Hadar Goldin era stato catturato dai militanti di Hamas, il 1 agosto 2014. La foto è stata scattata a settembre del 2014. (Kent Klich)

La notte tra il 31 luglio e il 1 agosto del 2014 a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, era in corso l’operazione Margine protettivo lanciata da Israele l’8 luglio. Quella notte nei combattimenti con Hamas rimasero uccisi due soldati israeliani, e un terzo, il sergente Hadar Goldin, fu catturato dai palestinesi. Sebbene l’esercito israeliano non sapesse con esattezza dove fosse tenuto prigioniero Goldin, cominciò a bombardare i tunnel costruiti da Hamas lungo la città di Rafah, al confine tra l’Egitto e Israele.

Ciò che è accaduto dopo è stato uno degli episodi più drammatici della guerra nella Striscia di Gaza: per quattro giorni l’esercito israeliano ha ucciso e ferito decine di civili (i resoconti variano tra i 135 e i 200 morti) e distrutto centinaia di case e altri edifici. Seguendo il protocollo Hannibal – che prevede l’uso massiccio di armi da fuoco per salvare un soldato catturato, anche a rischio della sua vita – l’esercito israeliano ha lanciato su Rafah oltre duemila bombe, missili e granate. In seguito, sono state trovate numerose prove del fatto che quegli attacchi hanno violato il diritto internazionale e la convenzione di Ginevra.

Il progetto Black friday di Kent Klich

Pochi giorni dopo il cessate il fuoco a Rafah, la sede di Amnesty international a Gaza ha ricevuto la chiamata del fotografo svedese Kent Klich. “Vorrei dare il mio contributo per raccontare quello che è successo. Vorrei realizzare la mia Guernica”, ha spiegato Klich a Fathy Khalil, responsabile di Amnesty international a Gaza.

Nasce così il lavoro Black friday, il nome attribuito a quel venerdì a cavallo tra luglio e agosto. Il lavoro di Klich, che è poi diventato un libro, è composto da tre parti: una con le immagini dei tunnel di Hamas bombardati, dove i soldati israeliani credevano fosse tenuto prigioniero il sergente Goldin; una con le foto, scattate dall’alto, delle strade in cui sono state trovate molte delle persone morte in quegli attacchi; e l’ultima parte con le foto delle vittime, che Klich ha chiesto alle famiglie.

A sinistra, Sadia Rejek Abu Taha, 40 anni; a destra, Hasim Ahmed Abdallah Sheik El Eid, 24 anni. (Kent Klich)

Black friday fa parte di un progetto sulle condizioni di vita nella Striscia di Gaza che Klich ha cominciato più di dieci anni fa. Nel 2009 il suo lavoro Gaza photo album, sulle stanze bombardate durante l’operazione Piombo fuso, ha vinto il World press photo, il più prestigioso premio di fotogiornalismo. In Killing time, del 2011, ha usato le immagini di alcuni video girati dagli abitanti di Gaza nelle strade e nelle loro case. “Il killing time è il tempo in cui si vive costantemente con la consapevolezza che da un momento all’altro potrebbe succedere qualcosa: essere arrestati, morire sotto un bombardamento. Perché la violenza a Gaza non interrompe semplicemente la vita quotidiana, ma pervade il senso del tempo e dello spazio”, ha scritto nella prefazione del libro omonimo la filosofa Judith Butler.

Black friday è diverso dagli altri due progetti di Klich, ma è anche diverso dai reportage di guerra più tradizionali. Non ci sono foto cruente, che mostrano sangue o cadaveri. Non si vedono le famiglie delle vittime o gli edifici distrutti. Non ci sono donne che piangono o bambini che corrono tra le macerie. Non c’è una composizione da ammirare, non ci sono luci naturali usate a favore dei soggetti fotografati, non ci sono ritratti ambientati. La fotografia, in questo lavoro, è puro strumento messo a disposizione delle indagini, in maniera quasi scientifica.

Mashroo Amer Salah El Din, Rafah: il punto dove un tank israeliano il 1 agosto 2014 ha ucciso Aseel Saleh Hussein Abu Mohsen, di 17 anni. (Kent Klich)

Klich ha lavorato con due organizzazioni, Amnesty international e il gruppo di ricerca Forensic architecture di Londra. Quando il cessate il fuoco è diventato effettivo, tutti insieme hanno cominciato a indagare per ricostruire cos’era successo a Rafah in quei quattro giorni. I risultati delle indagini sono stati ottenuti incrociando diverse fonti: testimonianze di vittime, medici, organizzazioni e associazioni locali; notizie tratte dai mezzi d’informazione, dichiarazioni ufficiali, video e immagini raccolte tra la popolazione, i giornalisti e i fotografi. Forensic architecture ha ottenuto settemila documenti tra video e foto fatti dai civili e ha potuto ricostruire in 3d la devastazione della città. Grazie allo studio delle ombre sui tetti di alcuni palazzi, per esempio, è stato possibile stabilire gli orari esatti dei bombardamenti. Oppure, studiando le forme del fumo provocato dalle bombe, si è risaliti al numero di esplosioni in corso nello stesso momento.

Come sta cambiando il reportage di guerra

Siamo molto lontani dallo stile del reportage di guerra nato con Robert Capa durante la guerra civile spagnola del 1936: lo stile immediato, spesso cruento, a volte scomodo e spesso esplicito nel racconto della morte.

Un approccio che si è diffuso ancora di più durante la guerra del Vietnam, considerata la guerra fotografica per eccellenza, durante la quale, tra le altre, è stata scattata una delle immagini più emblematiche della storia della fotografia: quella della bambina che corre nuda al centro della strada dopo essere stata colpita dai bombardamenti al napalm lanciati dall’esercito statunitense.

Trang Bang, Vietnam del Sud, 8 giugno 1972. (Nick Ut, Ap/Ansa)

Fino ad arrivare a Don McCullin, il fotografo britannico che ha seguito gran parte dei conflitti del secondo novecento, tra cui quello in Congo nel 1964 e quello in Iraq del 1991. “Le sue immagini di guerra sono così vicine che lo spettatore può sentirsi dentro al campo di battaglia”, ha scritto Anthony Feinstein sul Globe and Mail. Henri Cartier-Bresson lo aveva definito il Goya con la macchina fotografica, per la sua capacità di raccontare gli orrori della guerra senza eroismo. E McCullin stesso, nella sua autobiografia Un comportamento irragionevole ha scritto: “Sono stato criticato per aver messo immagini orribili sotto gli occhi delle persone felici. In più di un’occasione le mie foto sono state giudicate troppo pesanti per una forma artistica”.

Ancora oggi, i quotidiani e le riviste di tutto il mondo pubblicano immagini di fotoreporter che lavorano nelle zone di conflitto: dalla Siria alla Nigeria, dalla Libia allo Yemen. Alcuni scelgono di non mostrare ai lettori quelle più cruente per non urtarne la sensibilità o per il timore di allontanarli dalla lettura dell’articolo. Altri credono che l’esposizione costante a immagini violente possa far perdere la capacità di valutare ciò che si guarda. Altri ancora sostengono sia necessario mostrarle per suscitare una reazione nell’opinione pubblica.

Secondo il giornalista e scrittore statunitense David Shields, molte di queste immagini rischiano di catturare il nostro sguardo più per la loro bellezza che per il loro significato documentario. Nel suo libro, War is beautiful, Shields ha scelto 64 foto tra le migliaia pubblicate sulle prime pagine del New York Times tra il 2002 e il 2013, per dimostrare come negli anni il giornale abbia proposto una visione estetizzante della guerra.

Quest’anno il presidente della giuria del World press photo ha spiegato sul suo blog che per la scelta dell’immagine vincitrice – quella scattata dall’australiano Warren Richardson a Röske, in Ungheria, in cui c’è un uomo che fa passare un bambino attraverso il filo spinato – la discussione con gli altri giurati ha riguardato non solo aspetti tecnici e giornalistici, ma anche estetici. Ed è stato preso in considerazione non solo il valore editoriale della foto, ma anche il suo impatto emotivo.

Hope for a new life. Röszke, tra Ungheria e Serbia, il 28 agosto 2015. Questa è la foto dell’anno per il World press photo. (Warren Richardson)

In Black friday Kent Klich ha scelto di non mostrare in maniera esplicita la strage di Rafah. Non potendo andare sul campo durante i bombardamenti, ha usato quello che aveva a disposizione e il suo lavoro è il risultato di un insieme di elementi: non solo la voce dei sopravvissuti, ma anche il loro contributo diretto. I video e le foto raccolte da Forensic architecture e Amnesty international sono stati materiali fondamentali per ricostruire quanto ero accaduto e ritrovare i luoghi in cui quella strage è avvenuta.

Non è la prima volta che eventi recenti sono raccontati anche attraverso foto e video di persone che si trovavano sul posto, che non erano professionisti: dall’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 allo tsumani del 2004 nell’oceano Indiano, dalla rivoluzione di piazza Tahrir in Egitto del 2011 fino all’incidente alla centrale nucleare di Fukushima nello stesso anno. Sono state le immagini scattate dai cosiddetti citizen journalist il più prezioso contributo alla ricostruzione degli eventi.

Non esistono regole da seguire per raccontare fotograficamente gli orrori delle guerre. Le immagini, comprese quelle amatoriali, permettono di vedere realtà che altrimenti non si potrebbero conoscere. E la fotografia digitale rende tutto questo più veloce, efficace e spesso essenziale. Come afferma lo scrittore e critico britannico John Berger: “Pensiamo alle fotografie come a opere d’arte, come prova di una particolare verità, come simulacri, come nuovi oggetti. Di fatto ogni fotografia è un mezzo per verificare, confermare e costruire una visione totale della realtà”.

Il progetto Black friday di Kent Klich è in mostra al festival Fotografia europea di Reggio Emilia fino al 10 luglio 2016.

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