16 maggio 2018 15:26

L’Indonesia è nuovamente sprofondata in un’ondata di violenza terroristica, ma stavolta c’è una variante del tutto nuova: le famiglie suicide. Per la prima volta nella storia, dei genitori hanno organizzato una gita di famiglia per farsi saltare in aria.

La prima delle tre famiglie coinvolte ha colpito tre chiese di Surabaya domenica 13 maggio. I componenti della famiglia rimasti uccisi sono sei: Dita Oepriarto, 45 anni; sua moglie Puji, 42; il figlio Yusuf, 18; il figlio Firman 16; la figlia Fadhila, 12 e la figlia Pamela Rizkita, 9.

I componenti di una seconda famiglia hanno perso la vita, nella stessa giornata, quando la bomba che stavano costruendo è esplosa a Sidoarjo, poco lontano da Surabaya. Sono morti Anton Febrianto, 47 anni; sua moglie Puspitasari, 47, e due figli, Hilta Aulia Rahman, 17 anni e Ainur Rahman, 15. Altri due figli – Faisa Putri, di 11 anni, e Garida Huda Akbar, di 10 – sono sopravvissuti.

La terza famiglia, composta da cinque persone, è stata coinvolta in un attacco suicida contro una stazione di polizia di Surabaya, il 14 maggio, con l’impiego di due motociclette. Quattro componenti della famiglia sono rimasti uccisi. Un bambino di otto anni è sopravvissuto.

Quando il gruppo estremista Jemaah islamiyah era al picco della sua influenza, poco prima degli attentati di Bali, intere famiglie erano devote alla causa, ma solo il maschio adulto era considerato un guerriero. Gli uomini di Jemaah islamiyah sposavano le sorelle o le figlie di altri esponenti dell’organizzazione o sceglievano la moglie nelle scuole dell’organizzazione, dove le ragazze venivano scrupolosamente indottrinate.

Le donne erano madri, insegnanti, corrieri e a volte amministratrici delle finanze, ma quasi mai combattenti, nemmeno nei conflitti comunitari di Ambon e Poso.

Se i bambini venivano arruolati di solito accadeva perché erano abbandonati o orfani. Un esponente indonesiano di Jemaah islamiyah ha sposato una filippina di Mindanao che era pronta a piazzare una bomba, ma non ci sono prove che l’abbia mai fatto. In ogni caso non si parlava di attentati suicidi. È difficile immaginare un esponente di Jemaah islamiyah disposto consapevolmente a condannare a morte la moglie e i figli. Il gruppo Stato islamico (Is), al contrario, ha coinvolto le famiglie fin dall’inizio. Il califfato ha intenzionalmente incoraggiato intere famiglie a spostarsi – berhijrah – in Siria per permettere ai padri di combattere, alle madri di riprodursi, insegnare o curare i feriti e ai figli di crescere in uno stato islamico puro.

Gli indonesiani, insieme ad altre persone provenienti da tutto il mondo, hanno aderito con entusiasmo. A volte gli uomini sono andati per primi, seguiti poi dalle mogli e dai bambini. Altre volte hanno portato con sé le loro figlie adolescenti per darle in moglie a combattenti non indonesiani.

L’Is è riuscito a trasformare il jihad in una questione di famiglia, con un ruolo per tutti

Un detenuto soprannominato Brekele ha permesso al figlio di 12 anni, Haft, di andare in Siria insieme ad alcuni parenti nell’agosto del 2016. Haft è morto combattendo insieme a un’unità francese dell’Is poco prima del suo tredicesimo compleanno.

Nell’agosto del 2015 una famiglia allargata di 27 persone, di cui facevano parte un bambino di pochi mesi e una donna di 78 anni in sedia a rotelle, è partita per la Siria. In venti sono arrivati nel paese. Tre sono morti in Siria (tra cui l’anziana disabile) e 17 sono tornati in patria nel luglio del 2017.

L’Is è riuscito a trasformare il jihad in una questione di famiglia, con un ruolo per tutti. Le donne erano “leonesse”, i bambini erano “cuccioli”. Ognuno aveva la sensazione di partecipare a una missione. Solo contando su famiglie normali che vivevano una vita normale il gruppo Stato islamico poteva sperare di presentarsi come un vero stato operativo.

Il coinvolgimento delle famiglie di ritorno dallo Stato islamico presenta diverse implicazioni. Innanzitutto significa che la deradicalizzazione è un processo che deve includere tutta la famiglia e non può rivolgersi solo agli uomini. I programmi di deradicalizzazione non possono limitarsi a promuovere il nazionalismo o presentare agli estremisti interpretazioni diverse del Corano. È necessario trovare il modo di convincere intere famiglie, spesso indottrinate al punto da essere convinte che tutto ciò che non è Stato islamico è il nemico, a cambiare obiettivi in quanto individui e come unità familiare.

Nel caso di altre organizzazioni estremiste – gruppi neonazisti dell’Europa orientale, bande criminali negli Stati Uniti, bambini soldato di Ambon – la presenza di una figura carismatica capace di seguire la riabilitazione dell’individuo nel tempo ha avuto un ruolo fondamentale. Ma in Indonesia questo tipo di riabilitazione è stato un processo ad hoc, e quando si verifica di solito è rivolto esclusivamente ai prigionieri maschi.

A Poso, dopo la fine di un sanguinoso conflitto che ha opposto musulmani e cristiani tra il 1998 e il 2001, alcuni psicoterapeuti hanno cercato di valutare il trauma dei bambini esposti alla violenza dei combattimenti, e di creare un percorso scolastico per aiutarli ad affrontare questi traumi. È necessario chiedersi se l’esperienza di Poso possa essere ripetuta con i bambini costretti a vivere con gli estremisti dello Stato islamico.

La prima cosa da fare è mappare le reti affiliate all’Is e documentare le reti familiari di appoggio. Il governo deve saperne di più prima di poter attivare programmi più strategici in tal senso. Conoscere queste famiglie è urgente, perché possono essercene altre pronte a compiere attentati come quello di Surabaya.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato da The Interpreter.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it