05 giugno 2015 11:00

Le discussioni seguite alla morte della signora Corazon Abordo, uccisa il 27 maggio da pirati della strada di etnia rom, hanno risollevato in noi interrogativi che risalgono al periodo – ormai due anni fa – in cui abbiamo girato il documentario Container 158 nel “villaggio attrezzato” di via di Salone a Roma.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Abbiamo trascorso circa dieci mesi in quel campo, concepito dalla giunta di Walter Veltroni e aperto ufficialmente nel 2009 da quella di Gianni Alemanno con il nome che oggi suona grottesco di “villaggio dell’accoglienza e della solidarietà”. Mentre realizzavamo il film, cercavamo di capire l’universo mentale delle persone con cui lavoravamo, cosa pensassero della propria vita, quali fossero le loro aspirazioni e dove s’immaginavano di lì a dieci anni.

Abbiamo lavorato molto con i bambini e con gli adolescenti che, come i loro coetanei italiani, avevano desideri per lo più consumistici – una macchina, un motorino e poi soldi, tanti soldi. Anche i loro modelli di riferimento erano quelli dei giovani medi italiani, le veline varie e i tronisti delle trasmissioni Mediaset che divoravano da mattina a sera.

Ma c’era una frustrazione in più. Sembravano tutti in preda a una profonda crisi d’identità. Non si riconoscevano nel modello di vita dei loro genitori e dei loro nonni, che erano quasi tutti venuti in Italia durante la guerra nella ex Jugoslavia, avevano decine di figli e in molti casi vivevano ai margini della società. Né si riconoscevano nel vissuto dei loro coetanei, dei loro compagni di classe con cui di fatto non avevano rapporti. Il loro italiano era basilare, in molti casi meno che scolastico, nonostante fossero nati e cresciuti qui, perché tra loro parlavano “il zingaro”, come loro stessi chiamano la lingua romanes, e perché la loro socialità si esauriva all’interno del campo.

Un giorno abbiamo fatto un esperimento. Abbiamo chiesto a tutti i ragazzi con cui lavoravamo: “Tu chi sei, come ti definiresti?”. Molti hanno risposto: “Io sono zingaro”. “Che vuol dire essere zingaro?”. “Vuol dire non essere italiano”.

L’essere rom – o essere “zingaro” – diventava una specie di identità che si affermava nella negazione, nel non essere un’altra cosa.

Era una fierezza che si misurava nella distanza da coloro da cui si sentivano rifiutati – che poi eravamo noi, i gadjé, gli italiani. Il rapporto con loro è ruotato per tutti i mesi che abbiamo trascorso al campo intorno a questa persistente dicotomia: noi e voi, gli zingari e gli italiani. A volte noi eravamo la porta d’accesso per il mondo degli altri. Ci chiedevano di andare in quei posti che normalmente gli erano preclusi: il centro commerciale Roma Est, il cinema, il mare. Ma sembravano visite in un mondo che li intrigava in quanto stranieri, più che incursioni in aree della città dove erano nati e cresciuti.

Un muro invalicabile

Tanto è rimasta inscalfibile questa dicotomia che, alla fine del film, non siamo riusciti a mantenere un rapporto reale con quelli che avevano lavorato con noi, nonostante abitino a meno di 15 chilometri dalle nostre case e nonostante tutte le belle giornate e nottate che avevamo passato insieme. Il rammarico per non essere riusciti ad abbattere questo muro ci ha spinto a più riprese a porci delle domande.

Come mai non si era creato quel rapporto di progressivo avvicinamento che è la base dell’amicizia? Come mai si erano mantenute le distanze? Eravamo stati noi incapaci – o forse non interessati – a creare un vero rapporto al di là dell’obiettivo del film? O il fallimento era il frutto di una sorta di strutturale diversità dei rom e dell’ancestrale diffidenza che loro hanno verso il mondo esterno?

La risposta non è univoca, ma crediamo sia da misurarsi proprio nel significato di “mondo esterno”. Finché i rom sono considerati al di fuori della nostra società – e al di fuori di essa sono anche spinti, con politiche dissennate come la creazione dei “villaggi attrezzati” – continueranno a vivere questo spaesamento identitario, che li porterà ad affermarsi in negativo. Il potere pubblico dovrebbe anticipare e influenzare gli sviluppi della società che governa invece di inseguire i suoi riflessi più gretti.

Per questo pensiamo che, se un giorno saranno superati i campi come oggi promette la giunta Marino a Roma, sarà più facile in futuro costruire ponti e uscire dal vicolo cieco del noi-voi, italiani-zingari, che oggi sembra la cifra essenziale intorno alla quale si costruisce e si struttura – da entrambe le parti – ogni discorso intorno ai rom.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it