22 marzo 2016 12:23

Non c’è forse immagine più efficace del disegno qui raffigurato per descrivere l’accordo sui profughi che l’Unione europea (Ue) ha concluso con la Turchia. L’autore, Driss Jabo, è un siriano di etnia curda, arrivato in Germania dopo la consueta serie di traversie che devono vivere i profughi diretti in Europa: gli scafisti per imbarcarsi dalle coste turche, le violenze delle varie polizie di frontiera, l’esborso di migliaia di euro.

L’intesa siglata tra Ankara e Bruxelles si propone di porre fine a queste pratiche, in modo da “offrire ai migranti un’alternativa al mettere a rischio la propria vita”. L’intenzione è encomiabile, ma l’alternativa proposta dall’Ue non è particolarmente allettante. Perché si riduce a un’unica opzione: restare in Turchia. Il testo stabilisce infatti che chiunque raggiunga la Grecia in modo “illegale” (cioè tutti, perché un modo legale non esiste) sia rispedito indietro in quel paese.

Come contropartita alla chiusura della rotta si prevede il ricollocamento dalla Turchia sul suolo europeo di 72mila siriani, sulla base del principio “uno contro uno”: per ogni migrante rimpatriato, un altro sarà ammesso. Il sistema ha un che di perverso: chi ha provato a venire illegalmente sarà automaticamente escluso, ma i ricollocamenti non saranno avviati fintanto che non ci sarà un numero corrispondente di persone rimandate indietro.

L’Unione europea ha delegato alla Turchia la gestione del problema, in cambio di sei miliardi di euro

Il testo non specifica come funzionerà questo meccanismo. Indica solo 72mila come tetto massimo. Una cifra del tutto inadeguata rispetto alla realtà: nel 2015 circa un milione di profughi sono entrati nell’Ue per quella via, 143mila dall’inizio del 2016. In Turchia vivono oggi più di due milioni di siriani fuggiti dalla guerra, più altre migliaia di afgani e iracheni, che non sono nemmeno contemplati nei ricollocamenti. Non tutti vogliono venire in Europa, ma certamente molti più dei 72mila indicati nel testo.

Il senso dell’accordo è ben rappresentato nel disegno di Driss Jabo dalla macchina che inghiotte profughi e macina mazzette di banconote. Perché di questo si tratta: l’Unione europea ha delegato alla Turchia la gestione del problema, in cambio di sei miliardi di euro – più la ripresa dei negoziati per l’adesione all’Ue, bloccati da decenni.

Con questa non trascurabile somma si potevano fare molte altre cose: predisporre un meccanismo generale di accoglienza al livello europeo; mettere in piedi reali e funzionanti corridoi umanitari per un numero di persone assai più elevato delle 72mila previste dall’accordo; creare le condizioni per un sistema virtuoso in cui s’investiva sull’inserimento dei profughi nella società. Ma quelle sarebbero state scelte di lungimiranza, di un’entità politica con una chiara visione strategica. L’Unione ha intrapreso una strada diversa, più miope e assai meno nobile: girare le spalle e pagare altri.

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