22 aprile 2015 16:51
Castel Maggiore, Bologna, il 16 luglio 2012. Elisa Bestetti ed Emmi Pihlajaniemi con le figlie Irma e Kirsi. (Alice Pavesi, Luzphoto)

Esistono buoni motivi per negare alle coppie di donne italiane l’accesso alla procreazione medicalmente assistita? In Italia l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo alle “coppie di maggiorenni di sesso diverso”. Così recita l’articolo 5 della legge 40 del 2004.

La legge 40 somiglia a quelle automobili dei cartoni animati che vengono incendiate, fracassate, schiacciate da macigni, scagliate giù da un burrone e ne escono ridotte alla sola scocca, anche se in qualche modo marciano ancora con Wile E. Coyote aggrappato al volante.

Una lunga serie di sentenze, italiane ed europee, ha quasi cancellato il divieto di diagnosi preimpianto per le coppie portatrici di malattie genetiche: prima per quelle sterili, poi anche per quelle fertili. Su quest’ultimo caso dovrà pronunciarsi in via definitiva la corte costituzionale.

La corte intanto ha già eliminato l’obbligo di produrre al massimo tre embrioni e impiantarli tutti insieme, il divieto di crioconservare quelli in eccesso, il divieto di fecondazione eterologa – che era uno dei pilastri della legge; e si prepara a intervenire anche sul divieto di donare alla ricerca scientifica gli embrioni soprannumerari.

Perché la legge 40 è stata impallinata in questo modo? È una legge anomala, che sembra contraddire il sistema di tutele che caratterizza il nostro ordinamento. A partire da quell’articolo 1 che attribuendo diritti “a tutti i soggetti coinvolti compreso il concepito” urta apertamente con la legge 194: se il concepito fosse soggetto di diritto alla pari di ogni altro cittadino, come potrebbe l’aborto non essere un omicidio?

Ma anche al di là delle questioni di principio, la legge 40 è una cattiva legge perché non affronta la realtà dei fatti. Perfino il reazionario più inflessibile ammette che la riflessione bioetica fatica a reggere il passo delle trasformazioni biotecnologiche – ininterrotte, vertiginose, gravide di conseguenze economiche, sociali, giuridiche, culturali.

Prendere posizione su queste faccende è un esercizio da rodeo. Per questo in Europa si ricorre spesso a strumenti come la moratoria o la legislazione temporanea, che prevedono esplicitamente una revisione a scadenza. Il parlamento italiano del 19 febbraio 2004 ha voluto invece sigillare una volta per tutte la sua visione della procreazione assistita. Il risultato è quello che sappiamo: la legge prosegue il suo cammino sempre più incerto, i cittadini prima hanno lungamente subìto e poi hanno chiamato in giudizio più volte il loro stesso stato, e le spese legali – be’, non dispongo di dati, ma non devono essere state piccole.

Immaginiamo di regolare per legge la circolazione nelle vie di una città. Precedenza, sorpassi, multe. E poi un’ultima norma: i biondi non possono guidare

Immaginiamo di regolare per legge, norma dopo norma, la circolazione nelle vie di una città. Precedenza, sorpassi, multe. Limiti di velocità, uso dei fari, obbligo delle cinture. Esclusione di chi non ha la patente. E poi immaginiamo di aggiungere un’ultima norma: i biondi non possono guidare. Sarebbe evidentemente un elemento estrinseco, una stonatura.

Ecco, mentre i tribunali vanno gradualmente rettificando gli articoli della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, paradossalmente è rimasto in piedi il veto più astruso e insensato, quello che non limita le libertà personali di tutti i cittadini, ma identifica una specifica categoria da escludere completamente: gli omosessuali (il tema del divieto di accesso a uomini e donne single è più complesso, e qui non lo affronterò).

Se è vero infatti che non esiste un letterale “diritto al figlio”, così come non esiste un letterale “diritto alla salute” (la procreazione, come la guarigione, non può essere garantita per legge), tendiamo a dimenticare che esiste – esiste eccome – il diritto a un accesso paritario alla medicina sia curativa sia riproduttiva. Il diritto a tentare di guarire, a tentare di avere un figlio.

Negare a un gruppo di cittadini l’accesso alla genitorialità è un passo di una gravità estrema. E ha una lunga storia alle sue spalle. In Italia c’è un precedente significativo: le leggi razziali del regime fascista. Il divieto agli ebrei di sposare cittadini “ariani” e di essere tutori, curatori o genitori adottivi di minori non ebrei era frutto di quell’antisemitismo all’italiana che oscillava tra il modello biologistico di stampo nazista e quello “spiritualistico-romano” di Evola e altri.

Occorreva che gli ebrei non facessero figli con i gentili, ma anche che non educassero bambini non ebrei. Naturalmente si può obiettare che le leggi razziali non impedivano agli ebrei italiani di mettere su famiglia. Ma gli impedivano di farlo con chi volevano, che a ben vedere è proprio ciò che fa la legge 40: obbliga una donna a formare una famiglia con un uomo e non con una donna, esattamente come sessant’anni fa una donna ebrea poteva certamente tirare su dei figli, ma mai con un “ariano” al suo fianco.

Ora come allora, ciò che si vuole impedire è indubbiamente che esistano certe famiglie: allora erano quelle “miste”, oggi sono quelle lesbiche. Un tempo era sufficiente ostacolare il matrimonio, la tutela e l’adozione – i soli modi di fare famiglia in un’epoca che guardava con orrore ai figli “naturali”. Oggi occorre andare più in là e proibire anche l’accesso all’eterologa: tecnica che, per una coppia di donne che vogliono avere un figlio, è l’unico percorso sicuro da un punto di vista giuridico e sanitario.

Insomma, l’eugenetica c’entra. I fautori della legge 40 paventavano una “deriva eugenetica” se solo fosse stato possibile scegliere di impiantare un embrione sano e non malato. Ma non si accorgevano – almeno spero – che l’impianto stesso della loro legge è sfacciatamente eugenetico: ci si propone di scegliere quali famiglie abbiano il diritto di esistere. A pensarci bene, questa governance biopolitica non è forse una pulizia etnica dolce, morbida, invisibile? E non incentiva forse la secolare, angosciante “soluzione” di tante lesbiche italiane, che per un sincero desiderio di maternità si costruivano famigliole eterosessuali tramite matrimoni di facciata che erano, in fondo, stupri etnici dolci, morbidi, invisibili?

Può sembrare eccessivo chiamare in ballo gli orrori del razzismo novecentesco per denunciare i limiti di una legge-quadro sulla fecondazione assistita che comunque, come si suol dire, “pone un argine al far west della provetta”.

Un’intera generazione di giovani lesbiche italiane sta subendo la condanna all’infecondità

Ma leggi razziali e pulizie etniche non sono che episodi nella lunga storia dell’eugenetica pubblica, che comprende anche le sterilizzazioni di massa condotte nel corso del novecento da molti paesi (anche democratici, come la Svezia).

E ciò che era un tempo la sterilizzazione forzata è oggi l’esclusione dalla medicina riproduttiva, e in particolare da uno strumento elementare e accessibile come la fecondazione eterologa. Le alternative sono rese impraticabili – soprattutto per le donne meno abbienti – dai costi vertiginosi di quello che viene chiamato “turismo procreativo” (un po’ come alcuni chiamano “villeggiatura” il confino fascista). E il risultato è ovvio: un’intera generazione di giovani lesbiche italiane sta subendo la condanna all’infecondità.

Ragioniamo un attimo su questo punto. Se qualcosa di simile accadesse a un altro gruppo – le donne siciliane, immigrate, buddiste – se ne coglierebbe subito tutta l’ingiustizia. Il meccanismo che ci fa sembrare naturale per una donna lesbica ciò che apparirebbe inaccettabile nel caso di qualsiasi altra cittadina, ha un nome. Si chiama omofobia. E del resto, accanto a una legge apertamente omofobica come la 40 ci sono norme che vanno in senso contrario.

L’ammissione dell’eterologa ha scardinato il modello della famiglia-fortino, e contiene un’implicita apertura ad altre configurazioni. Anche la legge sulle unioni civili omosessuali annunciata (più volte, a dir la verità) dal governo Renzi dovrebbe prevedere l’adozione del figlio del partner, qualora questo figlio non abbia già un secondo genitore: chiaramente una misura pensata innanzi tutto per chi ha fatto una procreazione assistita all’estero con donazione anonima di gameti.

La stepchild adoption, insomma, è già una forma piuttosto evidente di riconoscimento dell’accesso delle lesbiche, e delle loro famiglie, alla procreazione medicalmente assistita. Si sta intraprendendo una strada nuova. È tempo di trarne le ovvie conseguenze, e modificare anche la legge che costringe le donne lesbiche a concepire fuori d’Italia.

L’obiezione più robusta è però quella secondo cui le coppie lesbiche non potrebbero tirare su un figlio equilibrato. Prima di far scendere in campo gli esperti occorre chiedersi se questa domanda, in fondo, sia davvero legittima.

Immaginiamo che il diritto di provare ad avere figli discendesse dall’effettiva capacità di provvedere ai loro bisogni nel miglior modo possibile. Ai centri per la pma dovrebbero avere accesso prioritario gli aspiranti genitori ricchi e colti. Le fasce sociali emarginate scivolerebbero agli ultimi posti. È questo che vogliamo?

Oppure supponiamo che sia dimostrato che la condizione di un bambino allevato da due donne è talmente inaccettabile da doverla scongiurare per legge. Allora perché fermarsi qui? Se per i bambini questa fosse una vera condanna sarebbe necessario, anzi ineludibile, sanzionare socialmente – nel superiore interesse dei più piccoli – anche la procreazione naturale entro famiglie di questo tipo.

Lanciare campagne di pubblicità sociale contro le coppie di donne che vogliono un bambino. Insegnare nelle scuole che l’omogenitorialità è un male, va combattuta. Togliere alle mamme lesbiche il diritto di voto…

Nessuno si sogna di adottare misure simili. La loro assurdità è evidente. Un’evidenza empirica, perché – ed è questo il punto – chiunque conosca diverse tipologie familiari sa che, per quanto ciascuna abbia i suoi punti di forza e di debolezza, in realtà ogni singola famiglia fa caso a parte. Qualsiasi gruppo sociale, qualsiasi categoria, può far crescere figli sani e felici; e una politica che cercasse di ostacolare o indirizzare questo processo sarebbe un’aberrazione. Ma c’è anche un’evidenza giuridica, perché il diritto internazionale ha ormai riconosciuto la riproduzione e la famiglia come fondamentali spazi di libertà.

Tanto che già il rapporto Warnock, un caposaldo della giurisprudenza bioetica prodotto nel Regno Unito trent’anni fa, richiamandosi alla tutela della libera formazione della famiglia garantita dalla convenzione europea sui diritti umani, ammetteva alla procreazione assistita addirittura le coppie con precedenti di abuso sui minori. Altrettanto fa in Italia la legge 40. Un pedofilo può ricorrere alla pma. Una coppia di donne no.

Ma soprattutto, sostenere che le donne lesbiche non devono avere figli è veramente difficile oggi che, in numero sempre crescente, di figli ne hanno, e senza conseguenze drammatiche. Molti pensano che la questione sia ancora dibattuta, ma in effetti non lo è. Da una parte ci sono quarant’anni di ricerche sul campo e centinaia di studi pubblicati sulle riviste più autorevoli, che hanno mostrato che le famiglie omogenitoriali sono in grado di funzionare né più né meno di altre.

Alcuni studi suggeriscono che una coppia di donne sappia offrire ai figli un contesto formativo migliore di quello offerto da una coppia etero

Ormai tutto il mondo accademico serio – psicologi, sociologi, pediatri – ha tratto le sue conclusioni (alcuni studi, come quello di Gartrell e Bos, suggeriscono addirittura che una coppia di donne sappia offrire ai figli un contesto formativo migliore di quello offerto da una coppia etero).

E dall’altra parte? Dall’altra parte si trova un pugno di paper metodologicamente inconsistenti, scritti da ricercatori screditati ma riccamente sovvenzionati dalle organizzazioni della destra politica e religiosa. Peccato, perché molte mamme lesbiche sarebbero felici di leggere lavori anche critici, ma seri e credibili, che le aiutino a conoscere le eventuali carenze delle loro famiglie. Ma in circolazione si recupera solo questa letteratura pittoresca. Nulla di strano. Il sistema tolemaico non è scomparso con Galileo; i creazionisti vendono ancora migliaia di copie dei loro pamphlet.

Vogliamo parlare anche di soldi? Il ventaglio dei prezzi è molto ampio, e la pma non è economica per nessuno. Ma un fatto è certo: le coppie eterosessuali possono farsi fare dal loro ginecologo un piano terapeutico che permetterà di minimizzare la spesa per le analisi, le ecografie, e soprattutto per i costosissimi farmaci: scatole che costano cinquecento, ottocento, mille euro. Ho raccolto molte storie di coppie di donne che hanno pagato a peso d’oro (letteralmente) uno stimolatore ormonale che il servizio sanitario nazionale offre alle coppie “normali” al prezzo di due euro.

Qualcuna è stata aiutata da un farmacista solidale, che le ha fatto avere la preziosa confezione “di un’altra signora, che aveva cambiato idea”: briciole dalla tavola dei ricchi.

Altre hanno risparmiato somme favolose grazie alla disobbedienza civile di un raro medico che però, data l’entità delle cifre e la frequenza dei controlli, a un certo punto ha dovuto smettere di firmare le “ricette rosse” totalmente illegali.

Inoltre alle coppie etero sono accessibili (sia pure con una lunga lista d’attesa) i trattamenti clinici a prezzo contenuto negli ospedali pubblici, mentre a quelle lesbiche toccano per forza le cliniche private di altri paesi dell’Unione, e in più le spese di viaggio e di soggiorno all’estero. La medesima inseminazione intrauterina (Iui) costa poche decine di euro in un ospedale toscano e diverse centinaia in Danimarca; con la fecondazione in vitro con trasferimento in utero degli embrioni (Fivet) la forchetta si allarga ancora di più, all’estero si possono spendere dai cinque ai diecimila euro. Le più fortunate ne spendono poche migliaia per provare ad avere figli. Molte salgono a ventimila, trentamila. Una coppia, non di imprenditrici o miliardarie, ha dovuto spendere cinquantamila euro per servizi riproduttivi che per altri costano cifre assai minori, a volte irrisorie.

“Sembra il mercato degli aborti clandestini”, mi ha detto un’amica.

Solo che qui non si tratta di abortire ma di far nascere un bambino. E nella grande maggioranza dei casi quel bambino non nascerà affatto – il progetto è abortito prima ancora che il bimbo sia concepito. Molte donne italiane riescono a fatica a permettersi uno o due figli – 1,39 per la precisione (dati del 2014). Moltissime donne italiane lesbiche, nemmeno uno.

Ho deliberatamente evitato di mettere in gioco la questione degli uomini gay, che è diversa e va considerata a parte. La gestazione per altri (che qualcuno ancora chiama utero in affitto), vietata in Italia dalla solita legge 40, è una procedura effettuata all’estero da aspiranti padri gay ma anche da lesbiche, single, e soprattutto da una vasta maggioranza di coppie eterosessuali sterili. Un fenomeno trasversale che può attuarsi in forme antitetiche, con gesti di straordinaria solidarietà o di sfruttamento abietto; si presta a evidenti abusi, e va valutato con attenzione. Invece l’esclusione delle coppie di donne dalla pma è una faccenda più semplice: una palese, ingiustificabile discriminazione. Va rimossa al più presto possibile.

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