20 maggio 2015 16:00

In uno dei miei peggiori incubi da ansia mi ritrovo sul palco del Royal Albert Hall nel bel mezzo di un concerto, e abbassando lo sguardo mi accorgo di essere completamente nuda. È un classico del genere e credo che non richieda un grosso sforzo interpretativo. Ho sempre pensato che paure di questo tipo fossero esclusivo appannaggio di quelli come me, che non sono mai stati animali da palcoscenico e che, anzi, temono il palco e se possono lo evitano. Anche per questo stasera sono venuta qui a vedere il consumato showman Nick Cave, sperando che mi insegni come si fa.

Cave è considerato uno che domina la scena e il pubblico, uno sfrontato sciamano del rock, e quindi non credo che soffra di ansia da palcoscenico. Eppure, sfogliando il suo nuovo libro, The sick bag song, una raccolta di pagine di diario e testi scritti durante un recente tour negli Stati Uniti, sono incappata in queste righe, in cui descrive le sue sensazioni prima di salire sul palco a Filadelfia: “Scendevo una scala, nudo… /Nel buio dell’attesa”. Chissà, magari dietro il suo look così studiato c’è la paura di esporsi: forse lo usa come un’armatura. In un passaggio deliziosamente autoironico, racconta che prima di entrare in scena si sistema i capelli, ben consapevole di apparire ridicolo e fasullo mentre cerca di somigliare un po’ meno a “Kim Jong-un e un po’ più a Johnny Cash”.

Arriva sul palco in silenzio – niente ingresso trionfale, niente fanfara – tutto vestito di nero naturalmente (come lo sono io, per una forma di rispetto), e si siede al pianoforte. La prima volta che ho visto Nick Cave è stato al Lyceum nel 1981 con il suo gruppo post-punk Birthday Party, ai tempi del singolo Release the bats. All’epoca mi spaventarono a morte, e credo che la cosa fosse voluta. Ma ormai è un maturo cantante di ballate, e mentre ascolto le prime canzoni sono un po’ delusa da tutta quella calma. Colpa mia, forse: sono venuta qui sperando in una lezione di esibizionismo, e trovo un cantante tutto moderazione e sensibilità.

Poi si alza in piedi, e lo spettacolo prende vita.

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Mentre si muove sul proscenio con il passo furtivo di un predatore, secco e allampanato come l’Accalappiabambini di Robert Helpmann nel film Chitty chitty bang bang, mi ricorda le parole di Mark Rylance: la recitazione è l’elettricità che si sprigiona verso il pubblico, ma anche la calamita che lo attira verso di te. Cave ha detto che l’atto di camminare in scena richiede un passo in più, un cambio di marcia, una sorta di trasformazione, ed è quando questo accade che lui stesso appare più “in parte”, meno naturale e più efficace e coinvolgente. Mentre si rivolge alla prima fila come farebbe una boy band o un cantante confidenziale da night club, la sua esibizione può diventare esageratamente gigionesca, ma è troppo divertente. Di recente, Barney Hoskyns lo ha definito “l’uomo nero gotico del rock”, ma in lui c’è anche qualcosa di comico, e Cave sembra perfettamente consapevole dell’umorismo che c’è in buona parte di quello che fa. Non è un effetto involontario, è che lui sa cosa funziona.

E quello che molto spesso funziona sulla scena è la rappresentazione dell’irrealtà: Cave è un cantante che conosce bene le nozioni di artificio e di esibizione come gioco. In The sick bag song scrive che bisogna chiedere aiuto alle “nove Muse” e che l’ispirazione deve arrivare da fuori perché succeda qualcosa:

Le invochiamo tutte, le voci di questa eterogenea e litigiosa armata dell’ispirazione, perché ognuna allunghi sul palco i suoi tentacoli di trasformazione e combustione, e ci consenta di cominciare, nell’amore, e mettere in moto questo cazzo di spettacolo.

Stasera, quando in Jubilee street canta “I’m transforming, I’m vibrating/I’m glowing/I’m flying” (Mi sto trasformando, sto vibrando/sto luccicando/sto volando), mi rendo conto che chi è bravo sul palco ha molta di quella che Mark Rylance chiama la “parte elettrica” dell’esibizione: una forza vitale che si irradia verso l’esterno.

Per certi versi, Cave si porta appresso questa trasformazione nella vita di tutti i giorni, visto che fin dagli inizi della sua carriera ha creato un personaggio che non abbandona quasi mai. Nel documentario dell’anno scorso, 20.000 giorni sulla Terra, ha giocato con l’idea che esista un personaggio chiamato “Nick Cave”, che potrebbe essere o non essere lui. Vedendolo guidare lungo la costa dell’East Sussex, mi è tornata in mente Scarlett Johansson nel film Under the skin, una bellissima ed esotica aliena nella più terrestre delle ambientazioni.

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Recentemente, in un altro allarmante esempio di come la gente ormai si comporti come il peggiore dei paparazzi, qualcuno ha postato su Twitter una foto di Cave che dorme su un treno per Brighton. Tutti i commenti stupefatti e frenetici riflettevano lo stesso pensiero: “Com’è possibile che Nick Cave si trovi su un treno?”.

In altre parole, com’è possibile che sia reale, normale? E che cosa significa per un cantante essere mitizzato in questo modo? Come può vivere con gente che lo tratta in modo così strano? Forse può farlo solo restando sempre “nella parte”, creando una maschera che paradossalmente lo rende più riconoscibile, ma dietro cui può anche nascondersi. Io non ci sono mai riuscita – o magari non mi è mai venuto in mente – e non ho ancora capito se venire a patti con la propria fama sia la strada per la salute mentale o una forma di follia in se stessa, la materializzazione di un danno subìto.

Ma in modo geniale e inaspettato, Cave è riuscito a inventarsi un’immagine che gli permette di invecchiare con una certa grazia. Usa al meglio il suo fisico mingherlino, che è quello di un uomo molto più giovane, ma non dà mai l’impressione di non accettare la sua età o di volere strafare. Il suo timbro vocale è così maturato che oggi il cantante a cui somiglia di più è Neil Diamond, e lo considero un grosso complimento. So che non sono la prima a notarlo, ma la somiglianza è davvero impressionante.

Stasera, durante And no more shall we part e The ship song, sono scivolata in una specie di sogno a occhi aperti, con la voce baritonale, stanca e struggente di Diamond nelle orecchie. Ho immaginato Diamond in una cover di The mercy seat, e poi – ancora meglio! – Cave che canta You don’t bring me flowers, con Kylie Minogue o PJ Harvey nella parte della Streisand. Ecco, una cosa del genere non me la perderei per niente al mondo.

(Traduzione di Diana Corsini)

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