10 luglio 2015 16:15

È mentre stiamo tirando la tenda fuori dal garage in vista della partenza di nostra figlia per il festival Latitude, che Ben mi rivolge una domanda a cui non ero preparata. “E se andassimo a un festival quest’estate?”, mi chiede. “The end of the road non sembra male”. Ho pensato che dopo 34 anni passati insieme mi conoscesse un po’ meglio, ma per essere diplomatica decido di dargli corda. “Chi suona?”, gli chiedo educatamente. “Oh, un sacco di gente in gamba: Sufjan Stevens, Tame Impala, War on Drugs, Future Islands, Laura Marling…”.

A quel punto si gira, mi guarda in faccia e si rende conto che lo scherzo è finito. Non perché non mi piacerebbe vedere i gruppi che ha elencato (sì che mi piacerebbe), ma perché è un festival. Tende. Pioggia. Dormire sulla dura, fredda terra. Suvvia, Ben, stiamo parlando di me.

Non voglio scrivere una filippica contro i festival, e uno dei motivi principali è che non sono certo orgogliosa di questo mio atteggiamento. Provo più invidia che disprezzo per quanti, spinti da un’avventata spensieratezza, riescono a provare felicità in mezzo alle folle, il fango e un infinito tempo in piedi. Quando mia figlia è andata al Latitude l’anno scorso mi sono preoccupata per lei tutto il fine settimana, ma poi ho provato un po’ d’invidia quando è tornata a casa, reduce da temporali torrenziali, stanca morta e sporca, con indosso gli short e un cappello Stetson rosa, ed è scoppiata a piangere perché già le mancava tantissimo essere laggiù.

Ansia da prestazione

In pratica i festival suscitano in me la sensazione tipicamente adolescenziale di Fomo (fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa). Sento una fitta quando mi accorgo che gli altri si stanno divertendo laddove io proverei solo tristezza, e sento che la colpa deve essere mia. Eppure ho un’esperienza molto limitata su cui fondare la mia opinione.

C’è stato un giorno a Knebworth, nel 1978, in cui sono riuscita a sentirmi sia annoiata sia umiliata. Ero andata con alcuni fan dei Genesis e fumatori d’erba locali (meglio sorvolare), e quando uno di loro mi ha allungato una lattina di Lilt ho detto “no grazie”. Poi l’ho ripassata indietro notando, appena un secondo troppo tardi, la canna che spuntava fuori da un piccolo foro sul fondo della lattina e il fumo che usciva dalla parte superiore, dimostrando all’istante che non sapevo niente sulle droghe e che ero un’idiota.

I festival non erano fighi all’epoca, e quindi non ci sono più andata fino al 1995, quando mi sono esibita due volte a Glastonbury, incapace di provare la minima vibrazione o euforia e finendo invece per sentirmi annichilita dalla paura da palcoscenico, il suono pessimo, il freddo e il desiderio di essere da qualsiasi altra parte.

Per fortuna ora i festival si possono vedere in televisione, e quest’anno posso guardarmi Glastonbury comodamente sdraiata, con una borsa di ghiaccio post-ginnastica sulle ginocchia che non fa altro che rafforzare il mio giovanile senso di gioia di vivere. Il clou per me sono Mary J Blige, Jessie Ware e il momento in cui Pharrell fa salire sul palco alcuni bambini: teneri bambini britannici, con stivali Boden e ghirlande di margherite, che battono le mani a tempo. Father John Misty mi lascia perplessa e mi sorprendo a pensare, una volta ancora, quanto mi piacerebbe che la sua voce incantevole non fosse sprecata dal suo narcisismo compiacente e dai suoi testi pretenziosi.

Ciao Glastonbury

Alla fine mi preparo per Kanye West, resa quasi isterica dalla presentazione della Bbc. Sono pronta per il disastro e mi aspetto una delusione, ma in realtà la sua esibizione è avvincente. Guardando Kanye e la mia cronologia Twitter mentre lo guardo, osservo che piace alle persone più improbabili e che sono tanti i “togli voce” e “blocca” di quelli che non sono d’accordo. Ci sono grandi passioni in gioco, evidentemente.

Kanye non indulge in nessuno dei piccoli numeri che si concede la maggior parte degli artisti – dall’obbligatorio crowd-surfing al “ciao Glastonbury”. È chiuso in sé stesso e isolato: non c’è traccia dell’entourage che si vocifera abbia portato con sé a bordo di trenta veicoli. Non c’è neppure un complesso sul palco. Sembra incarnare l’inevitabile solitudine della “maggiore rockstar vivente”.

Ci sono contrattempi e disguidi, lo spettacolo s’interrompe e balbetta. Quando appare molto al di sopra della folla, in cima a un’enorme gru, sembra al contempo vulnerabile e onnipotente mentre, stretto in un’imbracatura, si tiene stretto alle ringhiere di sicurezza. In quel momento, non sono sicura che Kanye si stia poi divertendo tanto al festival. È un bel sollievo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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