22 febbraio 2016 16:33

Facebook mi ha fatto tornare in mente un’istantanea che ha due anni: la foto di tredici ragazzi sorridenti alla fine degli allenamenti di calcio e di basket. Ogni sabato faccio un po’ di sport con i bambini di una delle zone più disagiate del quartiere di Ferentari, a Bucarest.

Ricordo che il giorno della foto nel centro era appena arrivato un ragazzino nuovo, portato dal fratello. Aveva sette anni, ma ne dimostrava quattro. La maggioranza dei bambini di Ferentari dimostra quasi sempre un paio d’anni in meno. I motivi sono diversi, ma possono essere riassunti in una sola parola: povertà.

“Come ti chiami?”.

“Găăă’uscă” (gnocco di semolino).

“E cosa ti piace più di tutto, Găluscă?”.

“Mangiare la zuppa con gli gnocchi di semolino, è per questo che mi chiamo Găluscă!”.

Găluscă ha giocato con un piccolo pallone da basket verde e ha riso per tutto il tempo. Ogni volta che lo guardavo, il suo sorriso contagiava anche me: era un bambino felice e bello.

Un rifugio per i bambini

Alla fine della giornata, prima che andassi via, è scoppiato a piangere a dirotto. Tremava tutto. Mi si è stretto il cuore: pensavo che piangesse perché era stato escluso dai regali. Avevo distribuito delle magliette ai bambini che le avevano troppo sporche o troppo vecchie. Ma non a Găluscă, che indossava una maglia pulita e relativamente nuova. In realtà, piangeva perché era finito l’allenamento e credeva che non ci avrebbe più visti.

Găluscă è uno dei ragazzini del rifugio del Centro diurno e notturno per bambini di strada, di Ferentari. Sono qualche decina i bambini che frequentano il rifugio e il centro di accoglienza Cireșarii, entrambi non lontani dalla Scuola 136.

Molti di loro sono rom, ma non tutti. Sono bambini che hanno poche probabilità di essere reintegrati nelle proprie famiglie, di essere presi in adozione oppure di diventare delle persone funzionali. Bambini che diventeranno quegli adulti che tutti odiamo per la loro povertà, violenza, mancanza di educazione o per il colore della pelle.

Emi ha quasi 13 anni. Non sa né leggere né scrivere, ma sa contare e mendicare in francese

Quasi ogni domenica – sarò mancato cinque volte in un anno – vado al centro di Ferentari per aiutarli a fare i compiti. Dopo le due ore di matematica e di romeno, a volte ci tocca pulire l’acquario, altre ce ne andiamo insieme al parco, al museo oppure a mangiare la pizza. Ogni tanto si fa vedere anche Găluscă. Sta abbastanza bene.

Emi è nuovo nel centro. Ha quasi 13 anni. Non sa né leggere né scrivere, ma sa contare e mendicare in francese, perché ha trascorso qualche mese in Francia. Non so per quanto tempo resterà con noi. Ha vissuto esperienze terribili, difficili da immaginare e probabilmente impossibili da raccontare per iscritto.

Nella prima settimana, come succede sempre, non ha voluto fare i compiti insieme agli altri. Dalla seconda settimana, però, di solito le cose cambiano. È andata così anche con lui. Ha lavorato per un’ora di fila, leggendo e facendo i compiti di matematica. Pian piano la sua situazione migliorerà.

Nicu, che ha dodici anni, si trovava più meno nella stessa situazione, con la differenza che era molto più testardo di Emi. Dopo sei mesi, al test di matematica ha ottenuto i risultati migliori del centro, e gradualmente riuscirà anche a leggere.

La scomparsa della routine

Tra i ragazzi della foto di due anni fa, solo tre non c’è l’hanno fatta. Ionuț e Silviu li vedo di rado: non vengono troppo spesso a scuola. Due anni fa Silviu faceva progressi a vista d’occhio, soprattutto quando veniva a studiare a casa mia. Dan ha 19 anni ed è riuscito a completare solo i primi sei anni di scuola. Suo fratello Răzvan ha superato il test di matematica con il 93 per cento delle risposte esatte, quando la maggior parte degli altri ragazzi generalmente non supera il 50 per cento.
Legge abbastanza bene ed è deciso ad andare al liceo. Quattro anni fa nessuno, neanche sua madre, credeva che sarebbe rimasto a scuola. Oggi Pisică, Florin, Pavel, Toto e Mitica stanno tutti meglio di quanto i loro genitori o i loro insegnati avrebbero mai immaginato.

I bambini fanno progressi. Ogni tanto qualcuno se ne va, come ha fatto Edi, che adesso sta bene: è in Belgio con la madre. Oppure Alex: anche lui vive con la mamma in Inghilterra. Altri sono costretti a chiedere l’elemosina. Mielu e Alberto vivono in Spagna. Ogni tanto tornano ma, una volta scomparsa la routine della scuola, è sempre più difficile recuperare.

Cambiare davvero le cose può essere semplice, ma non porta guadagni né gloria e nemmeno il successo in tv

È poco probabile che qualcuno di loro diventi professore universitario. Ma è molto probabile che la maggior parte vivrà meglio nella società romena: staranno meglio dei loro genitori e vorranno che i loro figli studino di più di quanto hanno potuto fare loro. Qualche ora di attenzione al giorno aumenta di parecchio le possibilità dei bambini che vivono in quartieri difficili, a Ferentari o altrove, di diventare degli adulti felici.

Carta e parole senza senso

Migliaia di persone che dovrebbero o potrebbero impegnarsi per rendere possibili questi cambiamenti – politici, burocrati, personalità pubbliche, insegnanti, assistenti sociali e attivisti di ong, europei, romeni o rom – ogni settimana perdono ore e ore a parlare di quello che dovrebbero fare gli altri.

Altro tempo prezioso viene sprecato per iniziative costose e inutili campagne sull’“inclusione”, commissionate da organizzazioni che non hanno mai visto un bambino – meno che mai un bambino rom di un quartiere disagiato – se non in foto o nei film. Decine, forse centinaia di milioni di euro buttati via ogni anno da un’industria che produce carta e parole senza senso. E ancora centinaia di ore buttate al vento con discorsi stupidi e artificiosi sull’impossibilità di cambiare il sistema o la situazione attuale.

Cambiare davvero le cose può essere semplice, ma non porta guadagni né gloria e nemmeno il successo in tv. Basta qualche ora di volontariato a settimana. E i costi sono minimi. È come prendere un caffè o un panino con tutti gli extra possibili. Lo dico perché da qualche anno faccio proprio questo, insieme a un gruppo di persone che, in schiacciante maggioranza, non sono né rom né ricche e neanche esperte d’infanzia.

Sono solo esseri umani che ispirano me e i bambini a essere e a rimanere buoni. Persone come loro ce ne sono molte. La situazione dei bambini molto poveri e di quelli che vivono negli istituti statali è spesso terribile. Cambiarla non è affatto complicato, ma – come per molte altre cose – per riuscirci non basta andare a blaterare in tv.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano romeno Dilema Veche.

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