13 ottobre 2016 18:14

Dalla sala sul giardino di palme del palazzo presidenziale Ali Bongo guarda l’Atlantico. Le televisioni mostrano l’espressione grave, alle spalle le bandiere con il tricolore giallo-verde-azzurro, di fronte il sole tropicale e l’orizzonte. Promette di dare lavoro ai giovani e di “dialogare” con chi lo accusa di essere stato rieletto solo grazie ai brogli. È il 27 settembre: alla cerimonia di giuramento a Libreville lo ascoltano solo quattro presidenti, in rappresentanza di São Tomé e Príncipe, Niger, Mali e Togo. Dagli Stati Uniti e dalla Francia invece non è arrivato nessuno. Di François Hollande neanche a parlarne: conferma che dal regno di Omar Bongo, padre padrone del Gabon per oltre quarant’anni e morto nel 2009, è trascorsa un’eternità.

Chissà cosa pensa il suo ultimo figlio, che i nemici dicono adottivo, orfano del Biafra, quando passa accanto alle foto in mostra lungo la parete del palazzo. Charles De Gaulle, Georges Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand, Jacques Chirac: in fila ci sono tutti i presidenti francesi venuti in Gabon a rendere omaggio, stringere accordi e rinsaldare l’egemonia dell’ex potenza coloniale.

“E pensare che nel 2009 la presidenza di Ali Bongo era cominciata con l’investitura personale di Nicolas Sarkozy”, sospira Samperode Mba Allogo, storico, giornalista e blogger di Libreville: “Nonostante le denunce di brogli e le barricate nelle strade, Parigi si era precipitata a riconoscere la vittoria di Ali”. Sette anni dopo è cambiato quasi tutto. Mentre la polizia spara e i dimostranti danno alle fiamme il parlamento di Libreville, il Quai d’Orsay denuncia “anomalie palesi” nel voto del 27 agosto 2016. E il Partito socialista di Hollande va oltre: “Un’alternanza al potere in Gabon sarebbe segno di buona salute della democrazia”.

Per capire come sia potuto cadere in rovina l’erede bisogna tornare indietro nel tempo. Magari agli anni trascorsi a Los Angeles, che Ali ricorda più volentieri della laurea in giurisprudenza a Parigi. I night alla moda, la passione per jazz, pop e bossanova; l’esordio da cantante, catenina d’oro e rosa all’occhiello sulla copertina di A brand new man, il disco prodotto nel 1977 dall’ex manager di James Brown; l’incontro con Michael Jackson, portato in tour in Gabon: sullo striscione che lo accoglie all’aeroporto c’è scritto “Welcome home”, omaggio alle radici afro. È il 1992. Ali porta i ricci lunghi sul collo e, tra un concerto e l’altro, siede in parlamento. Mentre papà comanda, sicuro dei rapporti con la Francia. Con accanto la primogenita ministra degli esteri, Pascaline.

Una volta al comando Ali cerca di prendere le distanze dal padre. Fa demolire edifici simbolo, destituisce dirigenti e collaboratori di vecchia data, apre cantieri

Un rapporto difficile, quello tra padre e figlio. “Ali ha avuto privilegi enormi, diventando ministro degli esteri a meno di trent’anni e poi assumendo la guida della difesa, un passaggio decisivo per l’ascesa al potere alla morte di Omar”, sottolinea Mba: “Molti però non credono affatto che fosse il figlio preferito destinato alla successione”. In Gabon ricordano una scena, ormai parte della memoria collettiva. Omar è in lacrime per la scomparsa del presidente del senato e quando Ali si avvicina lo allontana bruscamente: davanti alle telecamere abbraccia un altro figlio, Christian.

Una volta al comando Ali cerca di prendere le distanze dal padre, allontanandosi da lui il più possibile. Fa demolire edifici simbolo, destituisce dirigenti e collaboratori di vecchia data, apre cantieri. Quello dello stadio per la Coppa d’Africa 2017 è inaugurato da Lonel Messi, convinto pare da un assegno di tre milioni e mezzo di euro. È anche annunciata una riforma dell’economia per ridurre la dipendenza dal petrolio, il tesoro del Gabon, cuore del sistema di potere di Omar.

Che non sia andata bene lo testimoniano i resti del parlamento di Libreville, con sedie e scranni ridotti a scheletri anneriti dal fuoco. La rabbia dei manifestanti esplode dopo l’annuncio dei risultati elettorali: troppo pochi cinquemila voti di scarto per non sospettare brogli, tanto più con un’affluenza dichiarata del 99,93 per cento nell’Haut-Ogooué, il feudo dei Bongo. Un affronto del genere ai tempi di Omar non sarebbe stato possibile.

Gli immancabili baffi, le mani giunte in segno di vittoria: dal 1967 al 2009 questo ex ufficiale dell’esercito coloniale è padrone del paese definito “Pmu”, acronimo irriverente che sta per petrolio, manganese e uranio. Risorse strategiche sfruttate dalle imprese francesi pressoché in esclusiva, mentre nella tenuta di Omar sfrecciano struzzi e Rolls Royce. Gli inquirenti parigini diranno che in Francia le proprietà di famiglia sono 33, compresa una villa da 27 milioni di dollari. Di certo, Omar coopta oppositori, elargisce prebende e firma assegni per politici d’Oltralpe.

Il Gabon diventa base per le operazioni clandestine di Parigi nel Biafra mentre Elf e Total pompano greggio, offrendo sostegno incondizionato. Come nel 1990: quattro anni dopo la rielezione con il 99 per cento dei voti, Omar scampa ai moti di Libreville grazie all’intervento dei militari francesi di stanza a Camp de Gaulle. Sono gli anni d’oro. Si atteggia a mediatore internazionale, riceve Nelson Mandela e Yasser Arafat. Abolisce perfino i limiti al numero dei mandati consentiti dalla costituzione. È benedetto dalla Françafrique: l’Eliseo è pronto a tutto pur di difendere amici e contratti milionari nelle ex colonie.

In Africa si affacciano nuovi protagonisti, aumenta la concorrenza, si trasformano i mercati di approvvigionamento

Da allora molto è cambiato. Hanno pesato la globalizzazione, con il ridursi del peso specifico dei rapporti bilaterali, ma anche la repressione del 2009 e l’arrivo all’Eliseo di Hollande tre anni più tardi. “È stato l’unico presidente francese a non venire in Gabon nemmeno una volta”, sottolinea Mba: “Ali è stato spinto a cercarsi nuovi alleati e a puntare su Cina, Turchia e Marocco”.

Ma la storia può essere letta anche al contrario. Annotando che nel 2013 su 18 giacimenti petroliferi dati in concessione nemmeno uno va alla Total. O che l’anno successivo al colosso francese è inflitta una sanzione per evasione fiscale senza precedenti: 805 milioni di dollari. Ma davvero la Françafrique appartiene al passato? “Da Mitterrand in poi lo hanno promesso tutti i presidenti, anche se Hollande si è spinto più in là, accelerando un processo avviato gradualmente a partire dagli anni novanta”, risponde Aline Leboeuf, esperta dell’Institut français des relations internationales (Ifri): “Oggi i rapporti tra Parigi e i suoi alleati subsahariani sono più equilibrati, fondati su una sorta di dipendenza reciproca”.

In Africa si affacciano nuovi protagonisti, aumenta la concorrenza, si trasformano i mercati di approvvigionamento. “Il peso delle imprese francesi in Gabon si è ridotto dal 50 al 20 per cento, mentre le materie prime hanno perso valore”, conferma Antoine Glaser, fondatore del bimestrale La Lettre du Continent, uno dei massimi esperti in materia: “Il petrolio conviene prenderlo in Nigeria o in Angola, il manganese non è più strategico e lo sfruttamento dell’uranio è cessato del tutto”.

Per Ali è un problema anche sul piano personale. A contestargli l’elezione è un ex cognato, Jean Ping, già ministro degli esteri e presidente della Commissione dell’Unione africana, uno dei collaboratori del padre allontanato dal palazzo. Ora parla di “Ali Baba e i 40 ladroni”, citando l’inchiesta della magistratura parigina sull’appropriazione indebita di fondi pubblici. Sa che i Bongo non sono più intoccabili e conta quantomeno sulla neutralità dell’Eliseo. Nel 2010 i soldati francesi in Gabon erano 1.200, ora ne restano poco più di un terzo. “Durante le proteste a Libreville, anche quando le forze di sicurezza hanno assaltato il quartier generale dell’opposizione, sono rimasti dentro alla base”, sottolinea Mba: “Se la crisi dovesse aggravarsi porterebbero via i loro connazionali sulla nave che da qualche settimana staziona al largo di Libreville”.

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