15 agosto 2015 15:26

Il Texas italiano, visto dai 1.725 metri del Sacro Monte di Viggiano, è di una bellezza che mette i brividi: boschi e monti e colli fin giù nella valle dove spicca, nota stonata tra tanto verde, il grigio metallico del Centro oli più grande d’Italia. Ovunque tu vada, in val d’Agri, non riesci a liberartene: la fiamma perennemente accesa a segnalarne la presenza, un rumore di sottofondo incessante come di lavori sempre in corso e le esalazioni di gas e zolfo. “Guarda, lo hanno costruito sulla traiettoria della Madonna”, esclama Salvatore Laurenzana, un fotografo locale che, con Mimmo Nardozza e Marcella di Palo, ha girato un breve documentario, Mal d’Agri, sugli effetti delle trivellazioni petrolifere in questo angolo di Basilicata.

Per mostrarmelo lui e Nardozza mi hanno portato fin quassù, ai piedi del santuario più famoso della regione e ora, all’ombra di un faggio, ammiriamo un paesaggio da cartolina al centro del quale spicca questo monumento alla modernità, in linea d’aria perfettamente simmetrico al santuario della “patrona e regina della Lucania”, come fu incoronata da papa Leone XIII, nel 1890, la madonna dal volto del colore del bitume che qui in val d’Agri erutta naturalmente, al pari dell’acqua sorgiva.

La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia

Ne rimasero colpiti pure alla grande esposizione universale di Parigi del 1878, quando di fronte all’ampolla d’oro nero arrivata dalla Lucania in molti rimasero stupiti quasi come davanti alla nuovissima tour Eiffel.

Ma dovette passare ancora del tempo perché da quella “piccola sorgente di acqua mista a petrolio”, dove quest’ultimo “viene emesso in piccola quantità, ma in modo continuo sotto forma di viscide filacciche che vengono trascinate dalla corrente impeciando le sponde del ruscello e sprigionando un acuto odore caratteristico” e talvolta “anche delle bollicine gassose”, come si legge in un Bollettino della società geologica italiana datato 1902, si arrivasse all’estrazione vera e propria.

Una colonizzazione vera e propria

Tutto cominciò nella seconda metà degli anni trenta quando la neonata Agip cominciò a bucherellare il territorio senza che la “miseria contadina” descritta dall’economista agrario e grande meridionalista Manlio Rossi Doria, negli anni venti studente-ospite di un’azienda agricola e in seguito confinato dal fascismo proprio in val d’Agri, ne traesse alcun beneficio.

Oggi la storia si ripete. La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia: qui si estraggono il 70,6 per cento del petrolio e il 14 per cento del gas italiani.

Dalla terrazza naturale del Sacro Monte, Mimmo Nardozza indica i pozzi vecchi e nuovi, a volte mimetizzati tra i boschi. L’umanità è rarefatta, da queste parti: per strada si incontrano solo mezzi della statunitense Halliburton, tecnici della Total francese o auto dei vigilantes locali, uno dei piccoli business fioriti attorno alle estrazioni.

Michele, un giovane del posto, fa eccezione: gli piace godersi la solitudine della montagna ed è salito quassù con la sua moto per cercare un po’ di refrigerio dalla canicola asfissiante del primo pomeriggio, lavora come elettricista per una ditta che ha la sede nella zona industriale, vicino al Centro oli e per questo spesso è chiamato a eseguire lavoretti di manutenzione nei pozzi.

Racconta degli screzi tra gli operai che l’Eni ha fatto arrivare dalla Sicilia e quelli lucani per uno sciopero al quale i primi non hanno aderito e non è contento del modo in cui sono trattati il territorio e la popolazione. “È una colonizzazione vera e propria”, afferma senza timori.

Viggiano, 13 giugno 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

A Viggiano, poco più di tremila abitanti che affacciano sul Centro oli e su venti dei 27 pozzi attivi in Val d’Agri, in molti hanno avuto o hanno a che fare con il petrolio: c’è chi ha preso soldi per un pezzo di terra espropriato, chi fa lavoretti occasionali e chi ha un familiare impiegato, e tanto basta a far sì che dell’argomento in molti parlino poco volentieri.

Ma la consapevolezza dei danni procurati all’ambiente è tanta, almeno a giudicare dalla conversazione con il mio occasionale interlocutore d’alta montagna, venuto a cercare refrigerio in questo bosco incantevole dove ci si potrebbe pure abbeverare a una sorgente con annessa fontanella, se non fosse per una scritta, “acqua non controllata”. È stata messa lì dal comune che, nell’impossibilità di monitorare costantemente le sorgenti, avverte gli assetati viandanti: se vi azzardate a bere, lo fate a vostro rischio e pericolo.

Il problema è reale: l’Acqua dell’abete, tra i boschi della vicina Calvello a 1.200 metri d’altitudine, è risultata inquinata, e anche questa potrebbe non essere limpida come appare. “Ma i fedeli la bevono ugualmente perché pensano che è l’acqua della Madonna e non può far male”, spiega Michele.

Viggiano è oggi la capitale del petrolio italiano. Nel suo comune ricadono venti dei 27 pozzi della val d’Agri, nonché il Centro oli dove il gas viene separato dalla parte liquida (come pure lo zolfo), compresso e immesso nella rete distributiva della Snam. Il greggio, stabilizzato e stoccato, è invece spedito a Taranto, attraverso un oleodotto lungo 136 chilometri, da dove prende soprattutto la via della Turchia.

Il paese è attraversato da una rete sotterranea di tubi che affluiscono dai pozzi verso il Centro oli: ogni giorno nelle viscere del paesino lucano viaggiano 3,4 milioni di metri cubi di gas e l’equivalente di 81.868 barili di petrolio (ogni barile contiene 159 litri). Sono queste cifre a fare di questa valle “il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale”, come la definisce l’Eni.

Per paradosso, Viggiano è il comune petrolifero più ricco d’Europa in una delle regioni più povere d’Italia. Accade per le royalty che puntualmente, dalla fine degli anni novanta, l’Ente nazionale idrocarburi versa nelle casse del comune: fino al 2010 si trattava del 7 per cento del totale del petrolio estratto, poi è stato aumentato al 10 per cento.

Nel loro immaginario la natura da fonte di vita si è trasformata in rischio di morte

L’Eni dichiara di aver pagato 1,16 miliardi di euro dal 1998 al 2013 (ultimo dato disponibile) e a Viggiano arrivano più di 11 milioni all’anno, così tanti che l’amministrazione ha perfino difficoltà a spenderli. “Ci finanziano sagre e feste estive, hanno messo fioriere dappertutto”, dice Nardozza, ma tutto ciò non basta a impedire che i giovani emigrino alla ricerca di fortuna altrove e in paese rimangano solo gli anziani, come in molte aree interne del Mezzogiorno.

Nemmeno la presenza di tecnici e operai del Centro oli e delle aziende dell’indotto pare aver modificato più di tanto lo stile di vita del paese. Alle due di pomeriggio, lungo il corso principale c’è una sorta di coprifuoco e all’unico bar aperto regna l’accidia mediterranea delle ore di fuoco.

A essere cambiato davvero, mi spiega Enzo Alliegro, è il rapporto della popolazione con il territorio. Alliegro è un antropologo, insegna all’Università Federico II di Napoli e ha dedicato alla questione del petrolio in Basilicata un libro, Il totem nero, nel quale prova ad andare oltre la consueta critica ambientalista e ad analizzare le mutazioni antropologiche dettate dal cambiamento del rapporto tra la gente del luogo e la natura.

“La petrolizzazione ha danneggiato il territorio non solo sul piano ambientale e paesaggistico, ma pure su quello sanitario, identitario e della coesione”, sostiene. Vale a dire? “Fino a ieri, per i lucani la terra era un elemento di identificazione culturale e sociale. Nessuno dubitava dell’acqua e della salubrità dei prodotti locali. Ora invece pensano che le risorse naturali possano essere compromesse e questo cambia profondamente la loro identità. Nel loro immaginario la natura da fonte di vita si è trasformata in rischio di morte”.

Sentirsi derubati

Un tempo gli eventi avversi erano eccezionali: un alluvione o un terremoto (qui la cultura popolare ancora porta la memoria di quello devastante del 1857, immortalato dal fotografo francese Alphonse Bernaud nel primo reportage fotografico di un sisma della storia del giornalismo). Oggi invece secondo Alliegro, grazie agli sconvolgimenti portati dalle trivelle, la natura è diventata perennemente matrigna.

Ma sono pure altri i sentimenti che agitano gli abitanti di queste terre: “La popolazione si sente derubata di una cosa che è sua e che dovrebbe rimanere a loro. Pensano, secondo me sbagliando, che il petrolio è lucano e ne debbano beneficiare gli abitanti del posto. In buona sostanza, ragionano in questo modo: ci avete derubato, messo a rischio e ora ci trattate come persone del terzo mondo. È uno schema interpretativo al quale aderisce pure chi è a favore delle perforazioni”.

La sorgente di Tramutola, il 13 giugno 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Per addolcire la pillola ai suoi cittadini la regione Basilicata, dismessa ogni velleità autarchica (qualche anno fa aveva minacciato di aderire autonomamente all’Opec, l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio), utilizza i proventi dell’oro nero per finanziare lo stato sociale: tra i 20 e i 30 milioni al sistema sanitario, due milioni in borse di studio universitarie, 20 milioni in programmi di forestazione e per le vie blu marittime, 3,5 milioni in investimenti nella Società energetica lucana.

E ancora, dieci milioni all’anno vanno all’Università della Basilicata, altri soldi sono destinati alla riduzione della bolletta energetica e del costo della benzina, nonché a un fondo di garanzia per le imprese.

In definitiva, il petrolio copre così tante spese culturali e sociali per i nemmeno 600mila abitanti di una regione poco popolosa e priva di grandi città che la Cgil è arrivata a denunciare il rischio di una “dipendenza eccessiva dai diritti provenienti dalle attività estrattive”. Cosa accadrà, lascia intendere il sindacato, se le royalty dovessero diminuire, come già potrebbe accadere quest’anno a causa del crollo dei prezzi del petrolio, o addirittura il giorno in cui tutto dovesse finire?

Cravatte al sole

L’enorme giro d’affari attorno al business delle trivelle spiega perché, al di là dell’opposizione di facciata, nel mondo della politica locale al petrolio intendano rinunciare in pochi. Nel palazzo della regione a Potenza un tabellone segnala l’estrazione giornaliera come in un emirato arabo e attorno all’oro nero si gioca la stabilità di un sistema politico che non ha avuto grandi scossoni dai tempi della prima repubblica.

Ma l’opinione pubblica non è più la stessa che accettò senza battere ciglio le prime perforazioni negli anni novanta e i politici sono costretti a seguirne gli umori per non perdere consensi. Le inchieste giudiziarie hanno fermato le nuove prospezioni petrolifere e la giunta regionale ha deciso di non concedere più nuovi permessi, ma la corte costituzionale le ha dato torto e ora su tutta la regione incombono 18 nuove istanze, firmate Shell e e Total, su una superficie di 3.896 chilometri quadrati e 95 comuni interessati.

Nessuno pensa a uno stop al petrolio ma solo a come compensarne gli effetti più deteriori

Lo sblocca Italia del governo Renzi, che qui considerano l’ultimo atto di una colonizzazione cominciata con gli accordi del 1998 e proseguita con un successivo Memorandum, ha completato l’opera, scavalcando per legge gli enti locali e autorizzando trivellazioni un po’ ovunque, perfino di fronte alla costa di Policoro, sul mar Ionio, dove una decina di anni fa ci fu una vera e propria sommossa popolare contro la proposta dell’allora governo Berlusconi di costruirvi il sito unico per le scorie nucleari.

Nelle scorse settimane il governatore Marcello Pittella, fratello di Gianni – capogruppo dei socialisti al parlamento europeo – e figlio dell’ex senatore socialista Domenico – che nel 1981 curò clandestinamente nella sua clinica di Lauria (sul versante tirrenico) la brigatista Natalia Ligas ferita in uno scontro a fuoco– si è presentato a una manifestazione contro le previste perforazioni in mare, ma è stato contestato dai comitati No Triv: “Basta con le sfilate di cravatte al sole”, gli hanno urlato.

Al presidente della regione viene imputata la debole opposizione allo sblocca Italia e la mancata impugnazione di un articolo, il 38, che secondo l’Organizzazione ambientalista lucana (Ola) regalerebbe alle compagnie petrolifere il 78 per cento del territorio regionale. Ma non finisce qui. Secondo Nardozza “la Basilicata è destinata a diventare l’hub energetico più importante d’Italia”.

La nuova frontiera si chiama Tap (Trans-adriatic pipeline) ed è il gasdotto che dalla frontiera greco-turca porterà il gas del mar Caspio in Europa. Da Taranto la condotta passerà per la val d’Agri, facendo il percorso inverso a quello che fa oggi il gas estratto da queste parti, e “il Centro oli è destinato a trasformarsi in un gigantesco deposito”.

Per capirne un po’ di più degli orientamenti politici me ne vado a un convegno sulla sanità promosso dal Pd a Villa d’Agri, il capoluogo commerciale della valle, a pochissimi chilometri dal Centro oli.

Prendono la parola esponenti della regione, sindaci e politici delle zone del petrolio. Si parla di ospedali ma il tema dominante è l’onnipresente petrolio. C’è allarme sulle patologie causate dall’inquinamento ambientale e nello stesso tempo bisogna far fronte ai tagli previsti dalla spending review del governo, e il leit motiv del convegno è la capacità o meno di spendere alcuni fondi europei.

In buona sostanza, nessuno pensa a uno stop al petrolio ma solo a come compensarne gli effetti più deteriori. Così vanno le cose nella “Basilicata Saudita”, come l’ha efficacemente definita il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti, autore di numerose denunce sui disastri ambientali provocati dalle perforazioni.

Leonardo Fiore, ebanista, a Viggiano, il 13 giugno 2015. Fiore ha recuperato la tradizione delle “arpicedde”, le arpe a 34 corde. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Viggiano è la città della Madonna nera, del petrolio che ha lo stesso colore della Vergine e di musicisti nomadi. A rammentarlo è un’insegna che accoglie i visitatori all’ingresso del paese, appollaiato su una collina sovrastata dal Sacro Monte e a sua volta affacciato sul Centro oli. Molto prima che si cominciasse a estrarre l’oro nero, gli emigranti partivano in squadre da quattro, portandosi dietro i ferri del mestiere: un violino, un flauto, un clarinetto e l’“arpicedda”, una particolare arpa con 34 corde, abbastanza maneggevole per essere trasportata da compagnie itineranti.

Leonardo Fiore è uno degli ultimi eredi di questa antica tradizione. Non sa suonare ma ha recuperato un’attività artigianale che toccò il suo apice quando un emigrante viggianese, Nicola Reale, regalò uno strumento di sua fabbricazione (in realtà si trattava di un violino e non di un’arpa) al presidente americano Richard Nixon.

Mi invita nel laboratorio in un vicoletto del centro storico per mostrarmi il suo capolavoro: un’arpa in legno di frassino, abete rosso della val di Fiemme e corde di budello, appena ultimata dopo quattro anni di lavoro. È in vendita al prezzo di tremila euro.

Luoghi mitici

Per almeno un secolo e mezzo la musica ha dato da vivere a buona parte del paese, come si legge nel primo numero del periodico L’arpa viggianese, datato 1873: “Viggiano proprio per l’arpa si ha mutato in casa ogni tugurio”. A questo giornale è legato un aneddoto singolare:quando nel 1878 uscì il romanzo Sans famille di Hector Malot, in paese identificarono il personaggio di Vitali, che avvia a una vita da arpista girovago il trovatello Remi, con un musicista del luogo, e si offesero terribilmente perché Vitali era ritratto come uno sfruttatore del lavoro infantile, cosa che invece è stata edulcorata nel successivo cartone animato giapponese degli anni ottanta (il “dolce Remi, piccolo come sei, per il mondo tu vai” della sigla italiana firmata Vince Tempera che vedranno milioni di bambini).

Diciamoci la verità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è una grande cazzata

I redattori dell’Arpa viggianese (alcuni docenti ed esponenti del notabilato locale) si diedero così l’obiettivo di “restituire la rettitudine morale e politica dei musicanti”, considerati alla stregua dei gitani di oggi e dunque vittime di razzismo. L’epopea degli arpisti zingari incise in profondità la cultura viggianese, al punto da ispirare alcuni detti: “Misurare l’Europa da un capo all’altro è affare da nulla per il viggianese” oppure “ogni luogo è teatro pel viggianese”.

Il poeta Pietro Paolo Parzanese declamò in versi, nel 1846: “Ho l’arpa al collo, son viggianese, tutta la terra è il mio paese”. In una corrispondenza del 1884 Giovanni Pascoli scrisse a Giosué Carducci che “gli arpeggiamenti per tutto il paese” facevano del comune della val d’Agri l’Antissa della Lucania, paragonando il paesino in cui era stato inviato come commissario per gli esami scolastici al luogo mitico dell’isola di Lesbo in cui nacque il poeta e suonatore di lira Terpandro, considerato il fondatore della musica greca antica.

Alla fine di maggio è morto, alla veneranda età di 95 anni, l’ultimo grande esponente di una lunghissima tradizione. Si chiamava Victor Salvi, aveva suonato nell’orchestra filarmonica di New York e nella Nbc orchestra diretta da Arturo Toscanini, suo fratello era stato a sua volta un arpista di livello mondiale (si esibì con Enrico Caruso, Beniamino Gigli e Tito Schipa, tra gli altri) e insieme avevano fondato la Salvi Harps, tuttora un colosso del settore.

Ma questa storia a Viggiano pare rimossa, come se gli emigranti, lasciando il paese, avessero portato via pure la sua musica. Nonostante la buona volontà di qualcuno e le buone potenzialità legate a un mercato di nicchia rispetto al quale potrebbero contare su un know how plurisecolare, alle arpe si preferiscono le trivelle. Leonardo Fiore lo ammette sconsolato: “Oggi nessuno vuole fare più quest’attività, tutti vogliono lavorare con il petrolio”.

Compensare i danni

A separare il pozzo Monte Alpi 1 dalle stalle dell’azienda agricola Sassano è un reticolato e null’altro. Ci arrivo passando per la sede della fondazione Enrico Mattei, che utilizza un bel convento restaurato e si premura di incentivare il turismo sostenibile e di fare di Viggiano un albergo diffuso, nel tentativo di compensare l’impatto ambientale delle estrazioni.

Lungo una strada poderale, in un’area che dovrebbe essere espropriata per consentire l’apertura di una quinta linea del Centro oli, tra terreni coltivati e vecchie abitazioni in pietra, spunta un’antica sede sindacale della metà dell’ottocento, in una casa colonica ristrutturata.

Il proprietario dell’azienda, Gaetano, non c’è ma risponde al telefono, chiamato da un suo dipendente indiano: “Da quando sono spuntati i pozzi per me è stata la fine”, dice. Il vino che produce non lo vuole più nessuno e le mucche hanno cominciato a morire senza motivo: “In meno di un mese ne ho seppellite quindici e nessuno sa darmi una spiegazione”. Davanti all’azienda ce n’è una con una sorta di distrofia muscolare, scheletrica, separata dalle altre, gli occhi che paiono implorare aiuto. “Diciamoci la verità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è una grande cazzata”.

Il monumento commemorativo del terremoto del 1857 a Grumento Nova, il 13 giugno 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Nel centro di Grumento Nova incontro un simpatico personaggio che non vuole dire il suo nome ma è votato alla chiacchiera e incline alla citazione colta. È un professore di liceo in libera uscita estiva, tipica figura d’intellettuale magno-greco di paese e, da una piazzetta affacciata sulla val d’Agri, sulla collina di fronte a quella su cui è costruita Viggiano, indica il Centro oli, la “cattedrale nel deserto”: “Una volta questa era una valle bellissima, del vino di Grumentum”, l’antica città romana, una sorta di Pompei lucana oggi parco archeologico, “ne parla Tito Livio, ma ora arriva un olezzo…”.

La cittadina non beneficia di royalty milionarie come Viggiano ma risente degli effetti più sgradevoli: il rumore, specie di notte quando tutto tace, le esalazioni che non deliziano l’olfatto, la moria di carpe nel lago Pertusillo, invaso artificiale che, volgendo lo sguardo verso la sinistra da questo paese-terrazza, si estende a perdita d’occhio circondato dai boschi.

Dovrebbe essere una riserva naturale, quest’ultimo, un’oasi nel verde che fornisce alla Puglia, attraverso una mastodontica diga alta cento metri, il 65 per cento del suo fabbisogno di acqua potabile e per usi irrigui: 4.500litri al secondo, per una capacità di 155 milioni di metri cubi.

Da anni, invece, si susseguono denunce e controdenunce, analisi e controanalisi, in una guerra di dati e notizie che servono solo a far confusione e a coprire di una spessa coltre di disinformazione l’intera questione.

Tre tipi di scienza a confronto

Da quando muoiono le carpe attorno al Pertusillo è accaduto di tutto: un tenente della polizia provinciale che aveva diffuso i dati sull’inquinamento è stato sospeso dal servizio, processato per rivelazione di segreto d’ufficio e poi definitivamente assolto, l’Arpa della Basilicata ha censito la presenza di ben 21 metalli pesanti nelle acque del lago, cinque dei quali passati indenni perfino agli impianti di potabilizzazione, l’Organizzazione lucana ambientalista ha denunciato concentrazioni di idrocarburi superiori ai limiti legali nel 70 per cento dei campioni mandati ad analizzare, specie in coincidenza con la foce del fiume Agri che attraversa le terre del petrolio.

Sono finite sotto accusa le trivellazioni e i depuratori malfunzionanti, i cambiamenti climatici e calamità naturali come la misteriosa comparsa di una devastante alga rossa.

Da ultimo, un deputato lucano cinquestelle, Vito Petrocelli (con un passato recente nell’estrema sinistra dei Carc), ha presentato un dossier alla commissione ambiente del parlamento europeo sostenendo che l’inquinamento del Pertusillo è tutta colpa del fracking, la tecnica di fratturazione idraulica utilizzata dalla Halliburton per cercare gas e petrolio. Per dimostrarlo, ha fatto un parallelo con un analogo fenomeno avvenuto in un lago del Kentucky.

Il petrolio, da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca

Ma, come per la puzza e il rumore del Centro oli, nessuno è finora riuscito a dimostrare un legame di causa-effetto e a stabilire responsabilità e pericoli per la salute. E chi è stato chiamato a fornire un’analisi scientifica non ha contribuito a diradare le nebbie.

“Qui si scontrano la scienza di stato che fornisce una verità ufficiale, quella aziendale che porta acqua al mulino dei petrolieri e un’altra di prossimità, fatta da medici, ingegneri, geologi ed esperti locali di vario genere che studiano il territorio e svolgono un’importante opera di denuncia ed educazione delle popolazioni”, dice l’antropologo Alliegro.

Poi c’è quella che definisce “la scienza dei senza scienza”, vale a dire le conoscenze legate alle esperienze sensoriali degli abitanti del luogo, che sono insofferenti ai rumori, soffrono per la puzza e si rendono conto che l’acqua non è più quella di una volta. Di fronte a questa evidenza, non c’è soglia di legge o interpretazione che tenga: lo scienziato senza scienza, abitante e profondo conoscitore dei luoghi per esperienza diretta, si rende conto che oggi in val d’Agri non si vive più come un tempo. In definitiva, per Alliegro esiste un danno percepito che è molto superiore a quello certificato.

Assistenzialismo allo stato puro

Che non sia facile attribuire colpe è testimoniato pure da un’altra evidenza: il petrolio, da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca.

Ne ho la prova in un canyon di Tramutola: da una sorgente, a poca distanza da un parco acquatico che sfrutta le acque sulfuree del sottosuolo, sgorga l’oro nero di Lucania, viscido e oleoso. Forma una sorta di ruscello nerastro e va poi a riversarsi in un torrente, il rio Cavolo. In qualche punto si addensa e si formano delle bollicine di metano, mentre l’acqua sulfurea gli scorre addosso e scende a grande velocità verso il rio, lasciando per strada molte impurità.

Mi dicono che è proprio da questa sorgente che nel 1878 fu riempita l’ampolla da portare all’Expo di Parigi ed è difficile credere che sia ancora viva in qualcuno la convinzione che, come per l’acqua della Madonna sul Sacro Monte, il composto che rigurgita dalle viscere di Tramutola abbia effetti curativi.

Proseguendo oltre, si incontrano le vestigia dell’“eldorado nero” della seconda metà degli anni trenta, come fu definito dagli amministratori dell’epoca. Si tratta di 47 pozzi svuotati e abbandonati, una sorta di avvertimento per quello che potrà accadere in futuro alle estrazioni di oggi.

Oggi il miraggio petrolifero si è spostato di poco, dalle gole di questo paesino lucano all’altro capo della valle. Ha conquistato politici e gente comune, lasciando credere che insieme alle jeep e alle trivelle sarebbero arrivati soldi, benessere e lavoro per tutti.

L’Eni fornisce qualche numero: 2.881 impiegati in Basilicata, di cui 348 direttamente (tra questi 206 lucani) e 2.553 (1.077 del luogo) nelle aziende dell’indotto o “nella catena di fornitura di beni e servizi”. Davide Bubbico, sociologo all’università di Salerno e autore del dossier per la Cgil, puntualizza: “Si tratta in gran parte di attività a basso valore aggiunto”.

In buona sostanza, per i giovani del posto che non emigrano il petrolio rimane un miraggio: si accontentano di mansioni poco qualificate, stipendi bassi e, almeno nella metà dei casi, di contratti a tempo determinato (spesso legati alla manutenzione degli impianti o a esigenze particolari), mentre le vecchie arpe ereditate da genitori e nonni rimangono gelosamente sigillate in casa come pezzi d’antiquariato, senza che nessuno di loro sappia però più utilizzarle.

“Sono tutti lavoretti per far stare tranquilla la popolazione, i giovani sono impiegati solo per pochi mesi, si tratta di assistenzialismo allo stato puro”, chiosa il professore di Grumento Nova, che azzarda un paragone con l’araba fenice, “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Per l’anonimo erudito magno-greco “l’Eni ha portato un’illusione di tipo foscoliano”: “Si tratta di una speranza che non arriva mai”, dice, anche se nessuno da queste parti vuole rinunciare a crederci.

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