29 maggio 2016 11:25

Calcutta non finisce mai di stupire. Il contrasto tra i grandi edifici coloniali di impronta vittoriana e l’intrico di viuzze e mercati che li circondano, il lusso ormai decaduto di certe dimore storiche nel nord e la metropolitana che taglia la città da nord a sud e non smette di allungarsi. Colpisce la moltitudine umana: le vie degli artigiani e quelle dei librai, i marciapiedi del centro colonizzati da bancarelle dove ogni giorno pranzano migliaia di impiegati, l’incessante viavai di persone e merci che attraversa ogni giorno il ponte di Howrah per raggiungere il distretto industriale sulla sponda sinistra del fiume Hooghly, braccio laterale del Gange.

Resta stupefacente nella metropoli indiana la capacità umana di abitare ogni spazio, baracche sul tetto di un condominio, tende lungo un muro di cinta, così come la straripante vitalità, la densità di librerie, festival, musica classica. Continua a colpire anche la grazia dei vecchi quartieri borghesi scrostati dal tempo, un giardinetto pubblico che si anima la sera, un vecchio cinema.

Lo stupore cresce a ogni nuova visita. Nuove immagini si sovrappongono: strade a quattro corsie tagliano la città in lungo e in largo, edifici pretenziosi sovrastano le vecchie case. Ogni volta trovo nuovi shopping mall, nuovi cavalcavia urbani, nuove città satellite. Rinominata Kolkata, nome dal suono più vicino alla lingua bengalese, la città ha quattro milioni e mezzo di abitanti, mentre l’area metropolitana fa 14 milioni (al censimento del 2011) e continua a espandersi.

Era anche una potenza industriale, una Manchester asiatica, e insieme un centro di vita intellettuale e di attivismo operaio

Eppure sta perdendo qualcosa. “Il boom edilizio sta distruggendo il tessuto urbano di Kolkata”, mi dice lo scrittore e musicista Amit Chaudhuri, originario della città anche se è cresciuto a Bombay. Intellettuale cosmopolita, insegna letteratura contemporanea all’università di East Anglia nel Regno Unito, è un acclamato conoscitore della musica classica bengalese e pubblica romanzi noti in tutto il mondo anglofono. Nel 1999 ha deciso di tornare a vivere nella città dov’è nato. E quando ha visto nuovi edifici al posto delle vecchie case, e interi quartieri che scomparivano, ha cominciato a scrivere articoli, petizioni: finché ha lanciato un movimento per salvare il patrimonio architettonico di Kolkata.

Patrimonio distrutto

Incontro Chaudhuri al tavolino di un caffè dentro un nuovissimo shopping mall a Ballygunge, nella parte meridionale di Kolkata. È uno di quei posti con pavimenti lucidi e negozi di note marche internazionali che potrebbe trovarsi ovunque al mondo, e già questo testimonia la trasformazione urbana. Perché il mall è spuntato tra affollate vie di negozi e strade residenziali vecchio stile, proprio in uno dei quartieri che lo scrittore vuole salvare. “Il patrimonio culturale di una città sta nella sua letteratura, nel cinema, nelle arti, nella musica, nella sua storia intellettuale, ma anche negli spazi abitati e nell’architettura”, sostiene. “Eppure a Kolkata un patrimonio architettonico viene sistematicamente distrutto, insieme a un tessuto urbano”.

Quelle vecchie case hanno uno stile architettonico unico, osserva Chaudhuri. “Oggi le definisco ‘storiche’ ma è un paradosso, perché queste case sono il segno di cos’è stata la modernità di Calcutta per tutto l’ottocento e fino alla metà del novecento”. Fondata nella seconda metà del settecento come emporio della Compagnia delle Indie orientali, Calcutta è diventata un centro commerciale di prima importanza ed è stata per oltre un secolo la capitale del raj, l’impero britannico nel subcontinente indiano. Era anche una potenza industriale, una Manchester asiatica, e insieme un centro di vita intellettuale e di attivismo operaio, e del nascente movimento nazionalista.

Le tracce restano nella struttura urbana: le vecchie case aristocratiche nella parte settentrionale della città, dimore dei ricchi imprenditori e commercianti del diciannovesimo secolo. Gli imponenti edifici coloniali nel centro amministrativo e degli affari, come il Writer’s building (“edificio degli scrittori”, gli scrivani che una volta affollavano i porticati e gli uffici), ora sede del governo del Bengala occidentale. Il Maidan, grande polmone verde, giardino pubblico, con in fondo il Victoria memorial, che oggi è un museo. Intorno al distretto degli affari, e soprattutto a sud, è cresciuta invece la città della classe media bengalese, la borghesia, i funzionari.

Calcutta nord è un’opportunità persa, manca un’idea di città

Le fortune di Calcutta hanno cominciato a declinare con la spartizione del Bengala (1905) e con la decisione britannica di spostare la capitale a Delhi, nel 1911: due decisioni prese dai dominatori britannici per “punire” il tumultuoso movimento operaio e nazionalista bengalese. Da allora la città è passata attraverso eventi drammatici – la grande carestia degli anni quaranta del novecento, la guerra di indipendenza del vicino Bangladesh, disastri naturali, conflitti sociali. Ogni volta ondate di profughi e migranti si sono riversate in città. Sono sorti nuovi quartieri, gli slum sono diventati una delle immagini più ricorrenti di Calcutta, perfino un cliché; nuove industrie sono nate o scomparse, sono rinati movimenti operai e intellettuali.

Tutto questo si riflette nell’architettura. “Guarda però cosa è successo nella parte settentrionale”, continua Chaudhuri: “Le grandi famiglie di industriali e commercianti se ne sono andate, e le case sono rimaste in abbandono. Se togli pochi edifici famosi, come la casa di Tagore, le lussuose ville tradizionali vanno in malora: nessuno ha pensato a recuperarle né a riusare gli spazi. Calcutta nord è un’opportunità persa. Magari ispira nostalgia, ma nessuna immaginazione di rinnovamento urbano. Manca un’idea di città”.

Stile bengalese-europeo

La città viva oggi è Calcutta sud, sostiene lo scrittore. “Le vie di Kolkata sono uno straordinario scenario architettonico. Mi riferisco alle case normali, quelle costruite tra l’ottocento e il novecento dalla borghesia bengalese, professionisti, medici, funzionari. A differenza delle ville aristocratiche del nord sono state abitate fin dal principio da bengalesi. Non sono state disegnate da architetti ma da anonimi costruttori, eppure hanno un senso delle proporzioni raffinato. Mescolano diverse influenze, echi del raj britannico ma anche influenze francesi e portoghesi, fino all’art déco degli anni quaranta. Il risultato è uno stile ibrido che non ho mai visto altrove. Potrei definirlo uno stile bengalese-europeo”.

Comincio a rimettere a fuoco immagini raccolte per strada: un porticato, una balconata civettuola, una bella veranda – magari però macchiati dall’umidità, o con le persiane sconnesse, o il tronco di un ficus che prorompe dal muro di cinta. “Queste case hanno alcune caratteristiche ricorrenti. Due, massimo tre piani, terrazze sul tetto, pavimenti di pietra rossa, persiane verdi alle finestre. Sono ariose, balconate, con verande semicircolari, spesso ventilatori laterali, a volte ringhiere di ferro battuto con un caratteristico motivo di sole nascente. A volte trovi elementi di art déco nelle facciate. Sono caratteri comuni, e però non trovi due case uguali: in una sola strada puoi vedere affiancate case del tutto diverse”.

Un quartiere nel nord di Calcutta, in India, novembre 2006. (Laif/Contrasto)

Queste case sono i segni della modernità di Calcutta, della sua industriosità, insiste Chaudhuri. “Ma al ritmo con cui stanno scomparendo, tra una decina d’anni saranno un ricordo”.

L’ondata di demolizioni è cominciata negli anni novanta, spiega lo scrittore. L’India era in piena liberalizzazione economica e anche il governo del Bengala Occidentale puntava ad attirare nuovi investimenti. In attesa di nuove fortune dell’economia, è cominciato un boom immobiliare. Sono comparsi i primi edifici commerciali, le strade veloci. È comparso Salt Lake, nuovo suburbio lungo la strada per l’aeroporto, blocchi di edifici disposti a raggiera intorno a un parco ottenuto prosciugando un laghetto salato (da cui il nome): era pubblicizzato come un piccolo paradiso residenziale, primo tentativo di fuga delle classi abbienti dal sovraffollamento cittadino.

È nata una nuova città satellite, Rajarhat, per una nuova borghesia in ascesa. Ma è stato un fallimento

Nei primi anni 2000 il chief minister (capo del governo) Buddhadeb Bhattacharjee voleva promuovere attivamente Calcutta come città dell’innovazione tecnologica, in concorrenza con Bangalore o Bombay. Faceva notizia, perché il Bengala Occidentale era governato fin dal 1977 da un Fronte delle sinistre dominato dal Partito comunista: ma questo non ha impedito al chief minister di offrire sgravi fiscali, terreni ad affitti simbolici e vari privilegi alle imprese disposte a investire nel suo stato.

Difficile trovare un dirigente comunista al mondo tanto vezzeggiato da amministratori delegati e giornali finanziari: l’Economist lo definì “il comunista-capitalista”, un Deng Xiaoping indiano. In effetti in quegli anni alcune grandi aziende tecnologiche si sono trasferite a Kolkata: Wipro, poi Ibm, hanno occupato nuovi grattacieli tutti vetro e acciaio, molto pubblicizzati come una nuova “cittadella tecnologica”. È nata una nuova città satellite, Rajarhat, con i suoi shopping mall, giardini, hotel e residenze chic per una nuova borghesia in ascesa.

Tutto ciò mostra già i segni del tempo. “Salt Lake era il tentativo di creare una periferia all’americana”, commenta Chaudhuri. “Ma è sempre rimasto una cosa esterna”. Rajarhat si è rivelata una bolla: “I prezzi sono astronomici, nessuno vuole andarci. In fondo, è nata nell’aspettativa che industrie e mall diventassero un nuovo centro: ma poi gli investimenti non sono arrivati”.

La grande crescita degli investimenti privati si è fermata sul nascere: un po’ perché due grandi progetti industriali non lontano da Kolkata hanno suscitato le proteste della popolazione rurale a cui veniva tolta la terra (tra il 2007 e il 2009 sono scoppiati conflitti sanguinosi, tanto da spingere il governo centrale indiano a varare nuove leggi sulle acquisizioni di terre per proteggere i piccoli contadini). Un po’ forse perché il sistema imprenditoriale locale ha fatto le sue resistenze. Poi, certo, la recessione mondiale ha fatto il resto.

Un’idea standardizzata di patrimonio culturale

L’edilizia però non si è fermata. “Industria e investimenti non sono arrivati, ma tutto il corollario dell’economia liberista sì: shopping mall, nuovi hotel di lusso, nuove città satellite, zone residenziali”. Sui giornali, foto a tutta pagina reclamizzano nuovi appartamenti in periferie “da sogno”, immancabilmente immerse nel verde, magari cinte da mura (le cosiddette gated communities) per isolarsi dal caos cittadino. Si è generato un meccanismo speculativo, di guadagni veloci. “L’immobiliare sembra l’unica industria che tira. L’anno scorso un’indagine ha rivelato che a Kolkata sono aumentati i milionari con patrimoni in dollari: e sono quasi tutti imprenditori edili”.

I vecchi quartieri di Calcutta sud sono il pieno centro della città, terreni diventati pregiati. “Gli antichi proprietari hanno cominciato a vendere le loro vecchie case a immobiliaristi che le comprano per il valore del terreno edificabile: poi le demoliscono per tirare su nuovi edifici, moderni condomini a molti piani, oppure centri commerciali. In effetti sono messi in vendita i terreni, non le case, che sono considerate senza valore”. Questo significa anche cacciare via la piccolissima borghesia, i lavoratori, gli artigiani, spinti verso nuovi quartieri sempre più a sud e a est: capita di uscire al capolinea sud della metropolitana e trovare agglomerati di case popolari, baracche, risciò a pedali (ormai scomparsi dal centro) e all’orizzonte torri di appartamenti in costruzione.

Intanto il grande boom dell’edilizia sta distruggendo le case e perfino il tessuto connettivo della città, insiste Chaudhuri. Ma per proteggere qualcosa bisogna assegnargli un valore, e le vecchie case di Kolkata sud, pur con le loro verande e facciate déco, non sono valutate: “Nessuno le considera come un patrimonio: né economico, né storico e neppure estetico o affettivo. A Calcutta interessano solo alcuni edifici famosi, magari l’abitazione di Tagore: è un’idea standardizzata di ‘patrimonio culturale’”.

Calcutta, novembre 2007. (Laif/Contrasto)

La battaglia di Amit Chaudhuri ha acquistato risonanza. L’anno scorso ha raccolto firme illustri per una lettera aperta alla chief minister del Bengala Occidentale, Mamata Banerjee, e alle autorità cittadine: chiede di dichiarare “patrimonio protetto” i quartieri storici di Calcutta. A sostenere la causa è intervenuto anche il Nobel per l’economia Amartya Sen. Qualche mese fa si è formata un’associazione, Calcutta architectural legacies, o Cal, per continuare a fare pressioni sul governo. “Diciamo che questa città ‘eccentrica e bella’, per usare le parole di Amartya Sen, va salvata perché è un patrimonio storico, e poi perché, se valorizzata, può anche costituire un’attrazione per i visitatori”.

Finora non ha ottenuto grandi risposte, tra le autorità. “Pensate: la commissione cittadina per il patrimonio culturale è stata abolita, e quella statale è stata depotenziata. Gli attuali dirigenti del Bengala Occidentale sono decisamente ostili all’idea di patrimonio culturale”. D’altra parte, industria edile equivale a interessi potenti. Chaudhuri spera però che la sua campagna possa cambiare il modo di guardare al patrimonio storico: e dice che le risposte ci sono, “qualcuno comincia a vedere il valore di questi edifici”.

Certo, esiste il rischio di “rigentrificazione”, di vedere vecchie case restaurate trasformate in hotel o boutique di lusso: qualche esempio c’è già, Chaudhuri lo ammette. Ma per ora i bulldozer sembrano un rischio maggiore.

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