11 luglio 2019 10:21

“It’s a mass of irony for all the world to see
It’s the nation’s capital, it’s Washington D.C”
(Gil Scott Heron, Washington D.C.)

Ogni anno, a fine maggio, a Washington va in scena un grande paradosso americano. Migliaia di famiglie da tutto il paese arrivano in pellegrinaggio nella capitale per il memorial day, il giorno in cui si ricordano i caduti in guerra. Cercano i nomi dei parenti sulle grandi lastre di granito del monumento ai caduti del Vietnam, si fanno fotografare davanti alle statue dei soldati tra i cespugli del memoriale della guerra in Corea, si mettono diligentemente in fila all’ingresso del cimitero di Arlington, dove i padri con tono solenne spiegano ai figli il significato di quel luogo e li introducono al patriottismo e all’unicità americana.

È un modo per ricordare i sacrifici dei singoli, ma anche per rendere omaggio allo spirito collettivo della nazione. È il momento in cui gli americani dimenticano di essere un popolo diviso e incattivito e si illudono di vivere tutti nello stesso paese. Ed è anche il momento, forse l’unico rimasto, in cui Washington smette di essere il simbolo di tutto quello che non funziona negli Stati Uniti – la corruzione, la politica lontana dalla gente comune, le disuguaglianze economiche – e torna a essere la città immaginata dai padri fondatori, la capitale tirata su dal nulla per rappresentare e accogliere tutti.

Ma quello è anche il periodo in cui a Washington, come in molte altre grandi città degli Stati Uniti, la temperatura sale, i ghetti vanno in fiamme e le contraddizioni esplodono. L’amministrazione cittadina lancia un’offensiva preventiva contro la criminalità, mettendo più poliziotti in strada e aumentando i controlli nelle aree più problematiche, anche se il giro di vite raramente serve a ridurre la violenza. Il memorial day del 2019 è stato tra i più violenti degli ultimi anni. Nei giorni a cavallo della festività, nel giro di 72 ore ci sono state almeno venti sparatorie e tre omicidi. Il 25 maggio Maurice Scott, un afroamericano di 15 anni, è stato colpito da un proiettile vagante ed è morto mentre attraversava la strada a Congress heights, un quartiere a maggioranza nera nella zona sud della città. La polizia ha promesso una ricompensa fino a 25mila dollari per chi avesse fornito informazioni sull’omicidio, ma non è servito a trovare i colpevoli. Il giorno dopo, nella stessa zona, Michael Hooker, un nero di 44 anni, è morto accoltellato. Due giorni dopo nel quartiere di Anacostia, poco più a nord, è stato ucciso William Boykin, un nero di 36 anni. Per le persone che vivono in quei quartieri erano storie familiari, la conferma che le loro vite non trovano spazio nel racconto che Washington proietta nel resto del paese e nel mondo.

Poesia rap
Il giorno del memorial day, il 27 maggio, la Washington nera ha gridato la sua rabbia facendo irruzione nella Washington da cui sente di essere esclusa. Circa cinquecento persone si sono radunate a Freedom plaza, un grande rettangolo di cemento su cui si affaccia l’ufficio del sindaco, a pochi passi dalla Casa Bianca. Non era la tipica manifestazione di protesta. Erano previsti dei comizi politici, c’erano cartelli che chiedevano cure mediche e case popolari e un gazebo per registrarsi nelle liste elettorali, ma per la maggior parte del tempo si leggevano poesie e si ballava sulla musica di qualche dj di quartiere. Intorno alle tre del pomeriggio, con la temperatura sopra i 30 gradi e nessun posto dove ripararsi dal sole, una ragazza adolescente che indossava un hijab beige e grandi occhiali da sole viola è salita sul palco all’angolo della piazza, e ha cominciato a recitare con rabbia una poesia come fosse una canzone rap.

We die in a system designed to never let us succeed, different skin tones in colors but we all bleed.
(moriamo in un sistema pensato per non farci mai riuscire, diverse tonalità del colore della pelle, ma tutti sanguiniamo).

La ragazza ha fatto un appello ad andare a votare nelle elezioni locali, poi ha lasciato la parola a un’altra donna, che ha cominciato ricordando Maurice Scott. Quando ha chiesto “quanti di voi hanno avuto un parente o un amico ucciso da un proiettile?”, nella folla ammassata davanti al palco, circa duecento persone, almeno dieci mani si sono alzate. L’attivista ha concluso il suo intervento con le parole d’ordine del movimento che da qualche mese dà voce, letteralmente, all’indignazione dei quartieri neri: “Fermiamo la gentrificazione, noi non andremo da nessuna parte. Benvenuti a Washington D.C.”.

È cominciato tutto come in un film di Spike Lee, con un altoparlante che per qualcuno aveva un volume troppo alto. Tra Florida avenue e Georgia avenue, nel quartiere di Shaw, poco lontano dal centro politico e finanziario della città, c’è un negozio di telefoni e altri apparecchi elettronici che da 24 anni inonda l’incrocio di go-go music. Nato a Washington tra gli anni sessanta e gli anni settanta, questo genere musicale fonde jazz, rytm and blues, suoni caraibici e hip-hop, ed è forse il tratto più riconoscibile della cultura nera di Washington. Con gli anni gli altoparlanti del negozio sono diventati una costante e piacevole base musicale per chi viveva in zona, e per molto tempo nessuno ha avuto niente da ridire. Fino a inizio aprile, quando i residenti di un condominio di lusso appena costruito si sono lamentati per il rumore.

La manifestazione in Freedom plaza, nel centro di Washington, organizzata dal movimento #DontMuteDc, il 27 maggio 2019. (Alessio Marchionna per Internazionale)

La T-Mobile, l’azienda proprietaria del palazzo, ha ordinato al gestore del negozio di spegnere gli altoparlanti. La notizia si è diffusa rapidamente e su Twitter è stato lanciato l’hashtag #DontMuteDc (non spegnete Dc). È stata organizzata una protesta pacifica davanti al negozio e poi, a pochi isolati più a ovest, un grande concerto in cui si sono esibiti i TOB, una leggendaria band locale, davanti a migliaia di persone. Sorpresa dall’intensità della protesta, la T-Mobile ha fatto marcia indietro (e in consiglio comunale è stata presentata una proposta per fare della go-go la musica ufficiale della città), ma intanto il volume della contestazione cresceva e nei quartieri neri si faceva a gara per organizzare nuovi concerti agli angoli delle strade, mentre l’indignazione iniziale si era ormai trasformata in un movimento per la giustizia sociale.

Negli stessi giorni a Shaw c’è stato un altro piccolo episodio che ha rivelato le tensioni tra i nuovi arrivati – generalmente giovani, bianchi e benestanti – e i residenti neri di vecchia data. È successo nel campus della Howard University, una storica università afroamericana fondata nel 1867, appena due anni dopo la fine della guerra civile, e da sempre un simbolo delle lotte dei neri per il diritto all’istruzione. Quando alcuni studenti neri hanno visto un ragazzo bianco passeggiare per il campus con il suo cane, hanno cominciato a urlargli contro chiedendogli di andarsene. Intervistato dal Washington Post, uno studente del campus ha spiegato le sue motivazioni: “Perché devono invadere il nostro spazio nero? Pago 40mila dollari all’anno per sentirmi a mio agio. La maggior parte degli studenti neri è cresciuta circondata dai bianchi, dal razzismo”. E un altro: “Non volete solo prendervi le nostre case, volete anche cambiare le regole. Succede in tutta Shaw, i bianchi arrivano qui con i loro figli e fanno pic-nic, s’infiltrano nei nostri spazi. Perché non ci lasciate qualcosa?”.

Queste reazioni apparentemente esagerate sono in realtà il racconto quotidiano di quello che succede quando una trasformazione economica e sociale senza mediazioni – quella che generalmente viene chiamata gentrificazione – si abbatte su una città. Storie piccole che rivelano domande fondamentali: chi ha il diritto di esprimersi e di vivere gli spazi pubblici? Fin dove può spingersi lo sviluppo economico senza cancellare la vita e le culture delle persone? Si possono portare ricchezza e servizi in un quartiere beneficiando tutti?

La capitale della disuguaglianza
Sono domande che oggi dovrebbero farsi tutte le grandi città occidentali, che accogliendo migliaia di millennial che lavorano nel settore dei servizi diventano sempre più ricche, più vivibili, più cool, più progressiste sul fronte dei diritti individuali ma anche più disuguali e spietate verso le minoranze. Ma in nessun posto quelle domande sono urgenti come a Washington. Non solo perché la capitale – che secondo i padri fondatori della nazione doveva essere un luogo accessibile a tutti, al contrario delle grandi città dell’epoca come New York e Filadelfia – sta rapidamente diventando la città più disuguale degli Stati Uniti, ma anche perché in nessun’altra città americana la gentrificazione si lega in modo così stretto alla questione razziale. Non è un caso che il nuovo movimento per i diritti dei neri sia partito da Shaw.

Per la maggior parte della sua storia, il quartiere è stato abitato in grande maggioranza da neri. È da lì che nell’aprile del 1968 partirono in città le rivolte dopo l’omicidio di Martin Luther King, ed è lì che negli anni ottanta e novanta passava la maggior parte del traffico di droga della capitale. All’epoca i tassi di criminalità erano altissimi, come i livelli di dipendenza da crack, e nessun bianco si sognava di andarci ad abitare. I neri costituivano l’80 per cento della popolazione del quartiere e i bianchi erano un’impercettibile minoranza.

La manifestazione in Freedom plaza, nel centro di Washington, organizzata dal movimento #DontMuteDc, il 27 maggio 2019. (Alessio Marchionna per Internazionale)

La situazione è cambiata all’inizio degli anni duemila, quando la città ha cominciato ad accogliere le migliaia di dipendenti necessari a far funzionare la macchina del governo federale, che in quel periodo (erano gli anni delle guerre in Iraq e in Afghanistan e dell’espansione delle agenzie per il controllo delle frontiere) si stava allargando a dismisura. Poi è scoppiata la grande recessione e molte altre persone si sono stabilite a Washington, che per la particolare natura della sua economia non aveva sofferto come altre grandi città. Servivano nuovi appartamenti dove ospitare i nuovi arrivati, che erano in gran parte millennial, e nuovi servizi per farli sentire a casa. Shaw e altre zone a ridosso di downtown erano perfette per loro. Nel giro di quindici anni il quartiere è diventato uno dei posti più cool della capitale. Ma solo per i pochi che possono permetterselo. Oggi il prezzo medio delle proprietà ha raggiunto gli 850mila dollari. I prezzi delle case sono aumentati del 145 per cento in dieci anni, contro una media nazionale del 50 per cento.

Qualche anno fa la popolazione bianca ha superato quella degli afroamericani, che oggi sono il 43 per cento. I numeri si riflettono sul panorama urbano: la maggior parte dei luoghi storici della cultura e dell’economia nera, a cominciare dai locali che un tempo erano il cuore pulsante della go-go music, oggi sono quasi tutti chiusi; sono spuntati dovunque parchi per cani, caffè dove si può scegliere tra quattro varianti di cappuccino, ristoranti dove si possono comprare libri (ironicamente, quelli sulla gentrificazione sono sempre in bella mostra), librerie dove si può chiedere un frullato, alimentari biologici, pasticcerie di lusso e birrerie artigianali, mentre le strade sono invase da biciclette e monopattini elettrici. Questo trend riflette quello dell’intera città: nel 1970 i neri formavano il 70 per cento della popolazione, nel 2017, per la prima volta, sono scesi sotto la metà (47 per cento). Derek Hyra, docente all’American University, ha riassunto questa dinamica in modo brillante: Washington, un tempo chiamata Chocolate city per via della sua anima nera, è diventata Cappuccino city.

Traslochi forzati
Per capire come funziona la gentrificazione non bisogna concentrarsi tanto su quello che c’è ma su quello che manca, a cominciare dalle persone. Secondo una causa per gentrificazione e discriminazione intentata da alcuni residenti neri contro l’amministrazione locale nel 2018, solo tra il 2000 e il 2010 la città (che, senza contare l’area metropolitana, conta circa 700mila abitanti) ha perso 39mila residenti neri, mentre sono arrivati 50mila nuovi residenti bianchi. Molte delle persone costrette a lasciare i loro quartieri si sono trasferite ai margini dell’area metropolitana, in posti mal collegati alla città come la contea di Prince George, in Maryland, che dal 2000 ha visto aumentare di circa il 70 per cento il numero di abitanti a basso reddito. Ma tanti altri sono rimasti aggrappati alla capitale spostandosi nelle periferie più abbordabili. Tra loro c’è anche la famiglia di Kymone Freeman, che dirige la radio radicale We Act ed è uno degli organizzatori del movimento #DontMuteDc.

Kymone Freeman davanti all’ingresso di We Act Radio, nel quartiere di Anacostia, nel sud di Washington, il 31 maggio 2019. (Alessio Marchionna per Internazionale)

L’ho conosciuto il giorno del memorial day ad Anacostia, un quartiere che prende il nome dal fiume situato poco più a nord (singolare storpiatura del nome usato anticamente dai nativi americani, Nacotchtank). In giro non c’era un’atmosfera da festa nazionale. Le strade erano deserte, a parte qualche operatore ecologico e dei gruppetti di adolescenti che ciondolavano sotto il sole su Martin Luther King avenue, la strada principale. Qua e là, sui marciapiedi, spuntavano negozianti annoiati e accaldati che aspettavano solo il momento di chiudere bottega.

Freeman, un nero sulla quarantina con la barba grigia folta e un fisico da giocatore di basket, aveva organizzato un concerto jazz e uno scambio di libri per bambini e ragazzi nell’unica libreria del quartiere. La giornata era dedicata a Charnise Milton, una giornalista locale uccisa da un proiettile vagante lo stesso giorno di quattro anni prima, e faceva parte di una serie di eventi per sensibilizzare gli abitanti del quartiere sui rischi della gentrificazione. “La mia famiglia”, mi ha spiegato Freeman, “ha vissuto a Shaw per trent’anni. Ma quando ha aperto la metropolitana su U street gli affitti sono schizzati alle stelle e siamo stati costretti a spostarci qui”. Ora teme che la stessa cosa possa succedere a lui e alla sua famiglia. Di recente, insieme ad altri attivisti locali, ha creato un land community trust, un fondo fiduciario pensato per garantire ai residenti un controllo delle proprietà e per mantenere bassi i prezzi degli affitti.

Freeman e gli altri attivisti di Anacostia stanno cercando di usare il movimento #DontMuteDc come cassa di risonanza per le loro iniziative. Tra queste ci sono gli sforzi per convincere l’amministrazione cittadina a fare ricorso al District opportunity to purchase act (Dopa), una misura che consente al comune di entrare in possesso dei complessi residenziali in vendita se ci sono residenti che rischiano di restare senza casa. La legge, sostiene Freeman, è in vigore da dieci anni ma non è mai stata usata. “Decine di migliaia di persone sono state cacciate dalle loro case e il governo non ha fatto niente per impedirlo”.

In realtà a prima vista Anacostia non sembra il posto dove un millennial appena assunto da un’agenzia federale o da un ufficio di lobbisti vorrebbe andare a vivere. È un’area quasi completamente nera (intorno al 95 per cento) e ha i tassi di povertà e criminalità tra i più alti della città (le tre persone uccise nei giorni del memorial day vivevano tutte in questa zona) . Il reddito familiare medio è di 38mila dollari, circa la metà della media complessiva di Washington (73mila dollari). Ma anche in questo caso bisogna concentrarsi su quello che manca. O, meglio, su quello che non c’è ancora. Per Joseph Young, un fotografo che da anni studia gli effetti della gentrificazione nella capitale, i segnali sono dappertutto, basta saperli interpretare. Ogni giovedì Young conduce un programma su We Act, la radio di Freeman, in cui spiega agli abitanti cos’è la gentrificazione e perché farebbero bene a preoccuparsi.

Trasformazioni epocali
Passeggiando per Martin Luther King avenue mi ha spiegato come interpretare i segni. “Quella banca, la Chase, ha aperto due mesi fa dove prima c’era un bar gestito da neri. Ora ci sono quattro banche una vicina all’altra, di cui tre aperte di recente. Che senso ha?”. Il motivo, secondo Young, è che il comune ha definito il quartiere come zona di sviluppo, promettendo agevolazioni per costruire condomini e aprire attività. “Le banche sanno che l’area si sta trasformando e ci saranno investimenti”. Ha indicato l’incrocio più avanti: “Butteranno giù quella casa e costruiranno un complesso per uffici. Li hanno già messi in affitto”. In effetti sul marciapiede c’è il cartellone della compagnia immobiliare, con un numero di telefono e il disegno del progetto: è un bell’edificio in mattoni a tre piani; davanti all’ingresso del palazzo sono disegnate le figure stilizzate dei passanti, quasi tutti bianchi; c’è anche un ragazzo in bicicletta e un altro che porta a spasso il cane.

Il quartiere di Anacostia, il 27 maggio 2019. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Continuando a camminare Young mi ha fatto notare un rivenditore di marijuana a uso medico (“ha aperto due mesi fa”), un negozio che vende centrifughe e frullati (“otto dollari per due succhi di frutta, qui in pochi possono permetterselo”) e poi una costruzione con le pareti di lamiera gialla e verde, sormontata da un palazzo di lusso con appartamenti in affitto. “L’attività è gestita da un signore caraibico. Tempo fa mi ha detto che nel giro di un anno dovrà andarsene, perché il proprietario sta per vendere il terreno. Probabilmente succederà lo stesso a Kymone e alla sua radio: ha ancora quattro anni di affitto, poi subentrerà un nuovo proprietario che alzerà il prezzo dell’affitto”.

Buona parte dei terreni della zona sono di proprietà dell’azienda immobiliare Curtis Investments, che a pochi passi dalla stazione della metropolitana di Anacostia sta costruendo un complesso di 140mila metri quadrati che ospiterà 450 appartamenti di lusso, uffici e centinaia di negozi sparsi in otto edifici. Sulla riva del fiume nascerà un complesso di 150mila metri quadrati, con 690 appartamenti di lusso e un grande parcheggio sotterraneo.

Young è convinto che Anacostia sia la nuova frontiera della gentrificazione, e che stia vivendo l’inizio di un processo simile a quello che ha trasformato Shaw tanti anni fa. Prima o poi molti residenti di lunga data saranno costretti ad andarsene. Non crede che il governo sia in grado di fermare questo processo, perché le regole sono truccate. “C’è una legge secondo cui un’azienda che costruisce condomini con gli incentivi del comune deve destinare il 10 per cento degli appartamenti a famiglie a basso reddito. Ma nella categoria di chi è a basso reddito rientrano anche quelli che guadagnano poco meno del reddito medio, che è di 70mila dollari. Quindi famiglie bianche che arrivano da fuori avrebbero più possibilità di ottenere l’appartamento rispetto alle famiglie nere che vivono già in zona, che guadagnano il salario minimo e contano sui sussidi statali”.

Per i neri di Anacostia è una storia familiare. Per tutta la prima parte del novecento la segregazione in città è stata legalizzata, perché le compagnie immobiliari potevano inserire nei contratti clausole che impedivano a neri ed ebrei di comprare proprietà. Anche se è stata vietata nel 1948, questa pratica ha lasciato tracce indelebili sulla geografia urbana della città, e nei decenni seguenti la segregazione è continuata con altri mezzi, per esempio con il rifiuto sistematico delle banche di concedere mutui agli afroamericani. Oggi per i neri l’accesso al capitale è ancora un problema, ed è il motivo per cui a Washington, come in tante altre città americane, continuano a nascere ghetti e le disuguaglianze aumentano.

Come le nuove case, anche i nuovi servizi e le nuove attività commerciali potrebbero essere troppo cari per gli abitanti storici di Anacostia, e in molti dovranno spostarsi ancora più a sud, in aree più povere e distanti dal centro. Posti dove si vive male e si muore prima. Uno studio del dipartimento della salute di Washington ha rivelato divari inquietanti nella speranza di vita tra zone diverse: a St. Elizabeths, un quartiere a maggioranza nera a sud di Anacostia, si vive in media 68,2 anni; a Woodley Park, un quartiere ricco e bianco nel nord-ovest, la speranza di vita è di 89,4 anni. Nelle comunità più povere le persone hanno il doppio delle possibilità di essere obese rispetto ai residenti delle aree più ricche, dormono meno, mangiano peggio e fanno meno esercizio fisico, condizioni generalmente associate alla vita nelle periferie isolate.

I residenti di Anacostia non sembrano particolarmente preoccupati. Una ragazza che gestisce un salone di bellezza mostra un rassegnato fatalismo: “Se non potrò più vivere qui me ne andrò da un’altra parte”. Un barbiere sprofondato in una poltrona di pelle marrone, con la voce coperta dal rumore metallico di un ventilatore e di una tv a tutto volume, spiega di essere contento dei cambiamenti, e che anzi vorrebbe che fossero più rapidi. Vorrebbe servizi migliori e un quartiere più vivibile e più ordinato (“tutto il giorno qui davanti è pieno di gente che gironzola senza fare niente”). “Non credo si renda conto che presto potrebbe perdere il lavoro”, mi ha detto Young uscendo dal negozio. “Ma è normale. Qui la gente non ha tempo per organizzarsi. Se le cose si metteranno male faranno quello che i neri hanno sempre fatto: troveranno un altro posto dove vivere”.

Gli attivisti come Young e Kymone Freeman sono convinti che l’opposizione alla gentrificazione sia in realtà l’ultima lotta per la sopravvivenza dei neri. “Tra qualche giorno proietteremo nel quartiere il film The last black man in San Francisco”, mi ha detto Freeman seduto nel gabbiotto della sua radio. Il film racconta la storia di un ragazzo afroamericano che si illude di vivere ancora in un passato glorioso in cui il quartiere di Fillmore, nel centro di San Francisco, è stato il cuore della cultura nera della città. Passa le giornate a rimettere in sesto la grande casa vittoriana che un tempo apparteneva alla sua famiglia, ormai passata di proprietà e messa in vendita per milioni di dollari. Nel frattempo, nel mondo reale, la storia che lui si illude di preservare è già stata spazzata via. “È un film su quello che sta succedendo ai neri nelle città americane”, mi ha detto Freeman. “Se non facciamo niente perderemo tutto”.

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