31 marzo 2015 12:00
Danilo Alì Maraffino, in arte ’o Tre. (Giacomo Acunzo)

Giacca di pelle nera su una felpa rossa con il cappuccio, jeans neri a vita bassa e barba ben curata, Danilo Alì Marraffino si presenta all’appuntamento in un bar dell’Arenella gettando sul tavolino un tre di bastoni come in una partita a briscola e scusandosi per il leggero ritardo: è sotto esame al conservatorio Cimarosa di Avellino, il penultimo prima di diventare un rapper diplomato. Se non fosse intervenuta la conversione all’islam a dargli equilibrio e stabilità, sostiene, difficilmente sarebbe riuscito ad arrivare fino in fondo agli studi.

Nel suo mondo Danilo è un Mc, un “maestro di cerimonie”, il grado massimo del freestyle di strada. Vuol dire che è in grado di improvvisare, ovunque si trovi, un testo in rima che abbia un senso compiuto dalla prima all’ultima parola. “’A parola ’e Dio squarcia cielo e terra, ’a parola ’e l’omm’ corrompe core e membra”, canta in Sete, hip hop islamico made in Napoli al cento per cento. “L’ho scritta durante il ramadan, per non pensare al bisogno di bere, e mi è venuta fuori una riflessione sul bisogno di dio e di una fede, che può avere anche chi non crede”, racconta. Danilo si fa chiamare ’o Tre – da qui il tre di bastoni sul biglietto da visita – ed è il vocalist del gruppo rap Annurà. Nel dialetto napoletano vuol dire onorare, “ma ho scoperto che anticamente significava pure denudarsi”, mentre in arabo “an nur” è “la luce”. Tutti significati altamente simbolici per una band i cui testi sono pieni di riferimenti al Corano.

Sete, perfezionata nei tempi morti dei viaggi in bus verso Avellino, è diventata la colonna sonora di NapolIslam, un viaggio nelle case dei napoletani convertiti all’islam che il documentarista Ernesto Pagano ha realizzato per “registrare le risposte che il Corano dava alla crisi di queste persone, dovuta al vuoto di valori creato dal consumismo sfrenato, alla disoccupazione, all’ingiustizia sociale, al dolore provocato dalla perdita di un caro, all’amore per una persona di un’altra cultura”.

Il videoclip è girato in un luogo simbolico: sul monte Partenio, rifugio di Virgilio e di una coppia gay cacciata dalla città nel 1256 e, secondo una leggenda, salvata da morte certa per intercessione di Mamma Schiavona, che squarciò le nubi per lasciar passare un raggio di sole a sciogliere il ghiaccio che congelava i due malcapitati. Proprio in quel luogo, quasi in cima alla montagna meglio conosciuta come Montevergine, oggi c’è il santuario davanti al quale il 4 febbraio, in occasione della Candelora (il giorno che “se nevica o se plora dell’inverno semo fora”, come recita un proverbio popolare) si danno appuntamento paranze di musicisti che suonano dall’alba a sera musiche popolari, fedeli arrivati da tutta la regione, nonché gay, lesbiche e transessuali che ogni anno festeggiano il miracolo del 1256.

La “juta dei femminielli”, il pellegrinaggio al santuario tollerato dalla chiesa non senza imbarazzi, con ogni probabilità affonda la sue radici nei tempi in cui i “gallae”, i transessuali romani, arrivavano lassù a celebrare la dea romana della fertilità Cibele, i cui sacerdoti officiavano vestiti con abiti femminili. Quale luogo migliore, dunque, per tenere insieme musica e religione, sacro e profano, musulmani e cristiani?

La storia del rapper dell’Arenella non è che la punta dell’iceberg di quello che il sociologo Stefano Allievi definisce “un islam inusuale”. Non c’è un altro posto, scrive in Islam italiano (Einaudi), dove si possano incontrare “un camorrista sedotto dal fascino dell’islam”, “un giovane con impegnata militanza marxista-leninista convertitosi in moschea, dove solo ammetteva di aver incontrato, per la prima volta, dei veri operai”, “soldati americani convertitisi nel Golfo e poi incontrati in preghiera, sbarcati dalle navi militari in sosta nel porto”, e “anche un convertito che, in un paese della provincia, si trovava in grave crisi di coscienza perché, avendo abbracciato una religione che rifiuta recisamente la carne di porco, si ritrovava a essere il gestore di una salumeria, nel cui retrobottega un piccolo gruppo di musulmani pare si riunisse, oltre tutto, per la preghiera”.

È quello che sostiene pure Ernesto Pagano, che nella presentazione di NapolIslam afferma: “Mai si penserebbe di incontrare uno spazzino, napoletano da generazioni, che prega in moschea e ha le figlie che indossano il niqab. Lo stesso vale per i discorsi di un parrucchiere per signore, anche lui napoletano, che battaglia con le clienti per dimostrare che la risposta ai problemi di oggi sta racchiusa nell’esempio del profeta Muhammad e non nel culto di padre Pio”.

La moschea di piazza Mercato è un crocevia di storie singolari. Lo scrittore napoletano Ermanno Rea l’ha frequentata per concepire il romanzo Napoli ferrovia, di cui è protagonista un ex estremista di destra convertito all’islam, che lui chiama Caracas. La sua figura si ispira a Federico Ottavio Abdullah Quintavalla, nato nella capitale venezuelana e in realtà soprannominato Mexico. Rintracciato di recente dal Corriere del Mezzogiorno, ha raccontato di aver cominciato a frequentare la moschea dopo aver vissuto in Egitto. Il suo islam non è lo stesso di Danilo ’o Tre Marraffino: “Le primavere arabe? Le ha volute l’occidente. Il califfato? Ha vinto contro la corruzione e le città che governa sono perfette. La sharia? Stabilisce che se tua moglie ti tradisce e ci sono due testimoni la puoi condannare alla lapidazione. L’attentato a Charlie Hebdo? Il divieto di rappresentare il profeta è sacrosanto”.

Abdullah Massimo Cozzolino, presidente dell’Associazione culturale islamica Zayd Ibn Thabit. (Giacomo Acunzo)

Abdullah Massimo Cozzolino, segretario dell’associazione che gestisce il luogo di culto intitolato a Zayd Ibn Thabit, un discepolo di Muhammad che trascrisse la prima versione del Corano su foglie di palma, non fornisce dati sulle conversioni all’islam a Napoli, anche se si stima che siano almeno un migliaio: la gran parte dei convertiti si avvicina per via dei matrimoni misti, altri per motivazioni soggettive e più difficilmente sondabili, ma ci sono anche studenti e ricercatori dell’Università Orientale che si sono avvicinati all’islam a seguito di studi e ricerche, ed è accaduto perfino che qualcuno abbia bussato alle porte del centro islamico dopo una vacanza in Egitto.

Cozzolino è arrivato all’islam in una maniera a dir poco singolare: ricercatore universitario, ha fatto in tempo a passare per la Federazione giovanile comunista italiana, a formarsi alle Frattocchie – la scuola quadri del Partito comunista italiano –, a fare un postdottorato all’Università Roma Tre e un periodo da ricercatore in Inghilterra, a lavorare all’Istituto Gramsci di Roma e a farsi perfino un anno di noviziato tra i francescani prima di rimanere folgorato sulla via della Mecca. Non è facile far comprendere una conversione così atipica e spiegare il nesso tra il fondatore del comunismo italiano, san Francesco d’Assisi e il profeta Muhammad, ma lui spiega che a traghettarlo dall’ateismo alla religione è stata la fascinazione per la teologia della liberazione. Dal cattocomunismo al “ritorno” all’islam, a detta sua, il passo è stato breve: “Ho fatto una sintesi hegeliana”, conclude con una battuta.
Ogni mattina il segretario della moschea prende un treno da Latina, dove vive con la moglie, per venire nel suo ufficio napoletano a occuparsi dell’amministrazione e della politica del centro islamico. Il suo predecessore Massimiliano Hamza Boccolini, come lui napoletano e anche lui con una formazione marxista-leninista, si era trovato a dover gestire il clima di sospetto e le attenzioni giudiziarie del dopo 11 settembre. Oggi Cozzolino si trova a dover gestire lo spauracchio degli estremisti dello Stato islamico: negli ultimi mesi è partita la caccia ai combattenti stranieri di casa nostra, musulmani di prima o seconda generazione sedotti dal fascino del califfato.

Hanno fatto scalpore i casi di alcuni jihadisti italiani, come Giuliano Ibrahim Delnevo, un genovese finito “martire” in Siria mezzo millennio dopo il suo concittadino Sinàn Capudàn Pascià, gran visir ottomano celebrato da Fabrizio de André nell’album Crêuza de mä, e Maria Giulia Sergio, da Torre del Greco, alias Fatima Az Zahra, scomparsa da Inzago, nel milanese, dove viveva con la famiglia, e subito denominata “lady jihad”.

Cozzolino ci tiene a far sapere che la situazione al Mercato è radicalmente cambiata a partire dal 2004. Oggi questa non è più “la moschea degli algerini”, si è aperta ad altre comunità e si dedica a un’educazione islamica votata alla tolleranza, al dialogo e all’assistenza agli immigrati: prima accoglienza, indicazioni legali, visite mediche, oltre a un servizio di barbieria, alle docce e a una mensa per gli immigrati che dormono per strada. Tra i protagonisti della svolta c’è Agostino Yasin Gentile. È l’imam della moschea e viene da Boscoreale, un comune della provincia, ha studiato sette anni a Medina e a detta di alcuni fedeli parla l’arabo meglio dell’italiano. Qualche anno fa fece notizia la sua decisione di andare, nella giornata della memoria, ad Auschwitz per ricordare le vittime della shoah. Il nuovo imam era arrivato da poco in una moschea sfiorata da un’inchiesta sui salafiti algerini e il suo gesto fu il segnale che per la comunità del Mercato stava cominciando una nuova epoca.

Gentile, che ha scoperto l’islam grazie alla “lettura di un’enciclopedia” e alla frequentazione di amici musulmani che l’aveva portato “a riflettere sulla figura del dio unico, sull’assenza di santi e dell’intercessione”, è arrivato a Napoli all’indomani dell’inchiesta che aveva lambito il luogo di culto. Il suo compito era eliminare qualsiasi sospetto di connivenza con gli integralisti. A dieci anni di distanza, si fa vanto del dialogo interreligioso e di aver aperto la moschea, oggi frequentata non più solo da maghrebini ma anche da pachistani, senegalesi, bosniaci, uzbechi, albanesi kirghizi, ceceni, tagichi, siriani.

Se Gentile è la guida spirituale della moschea di piazza Mercato, Cozzolino può esserne considerato il leader politico. Ad agevolarlo non è solo il fatto di essere italiano e di padroneggiare la lingua, ma anche quello di non avere alle spalle un percorso di studi e di vita “rigorosamente islamico”. Dopo la strage a Charlie Hebdo, ha inviato una lettera al consolato generale francese a Napoli, firmata dalla Federazione islamica napoletana, nella quale si leggeva che “l’ideologia dell’odio e della violenza di matrice radicale e oscurantista colpisce la nostra coscienza di cittadini europei e i nostri valori di libertà, di convivenza e di democrazia che sono alla base della civiltà occidentale”.

Per tutta risposta il console francese Christian Timonier ha voluto far visita alla moschea e incontrarlo. Cozzolino ritiene che la questione più rilevante oggi sia quella della libertà religiosa. In pratica, vuol dire la possibilità di avere una moschea ufficiale e finalmente raggiungere un’intesa con lo stato, necessaria per una religione che, secondo il dossier immigrazione 2014 dell’Idos, conta 1,26 milioni di fedeli nel nostro paese, 115mila dei quali italiani.

Ogni venerdì all’esterno della moschea va in scena un piccolo rituale: si chiude il vicolo, si smontano impalcature e si stendono teli, i negozi sospendono le attività e la preghiera si svolge per strada perché l’edificio non riesce a contenere tutti i fedeli, che di regola superano il migliaio. Quello che è stupefacente è che per tutta la durata della cerimonia auto e scooter di passaggio fanno marcia indietro e per strada non si sente volare una mosca. Ancora una volta la città-spugna della nota metafora di Walter Benjamin, quel luogo, secondo lo scrittore e filosofo tedesco, capace di assorbire ogni cultura trasformandola e per questo in continuo divenire, si dimostra capace di comportarsi in un modo molto diverso dal resto d’Italia: tra i vicoli del Mercato non c’è apartheid ma tutto si mescola e il risultato, come dimostrano le rime degli Annurà, è ancora una volta sorprendente.

Il rapporto tra la città e l’islam risale all’emirato di Bari nel nono secolo. E dai tempi in cui dalla moschea costruita al Fondaco dei Mori al Porto un tale Diego “si metteva il dito a l’orecchio et diciva una parola moresca che diciva alla accubar, che in lingua italiana vuol dire Dio sia lodato, et in questo modo convocava li mori a la moschea a far oratione ad usanza loro” fino ai sermoni di Agostino Yasin Gentile sono trascorsi quasi cinquecento anni, ma è come se il filo non si fosse mai spezzato.

Durante la Salat al asr, la preghiera del pomeriggio, all’interno della moschea di corso Arnaldo Lucci. (Giacomo Acunzo)

Danilo Alì Marraffino, il rapper islamico dell’Arenella, frequenta invece un’altra moschea, quella di corso Lucci, non molto distante dal Mercato. Ha cominciato a farlo grazie all’amicizia con un senegalese che vendeva cd falsi al Vomero e gli faceva ascoltare la musica dei rapper islamici americani: “Cominciai ad andarci nel periodo della guerra in Iraq. L’imam era Mario Abdullah Cavallaro, un napoletano che si era laureato in Arabia Saudita, una persona saggia”, racconta. Nello stesso periodo aveva cominciato a lavorare come antennista e si era montato a casa “una parabola con la quale vedevo i canali musicali”, appassionandosi all’hip hop ispirato al movimento Five-percent Nation, espressione artistica della “nazione islamica” americana. I suoi miti si chiamano Spike Lee, Muhammad Alì, Malcom X, ma anche i rapper francesi, che “rappresentano i proletari”. Testo preferito? Lettre à la République di Kery James, durissimo atto d’accusa a una società di “razzisti e tolleranti ipocriti” lanciato da un immigrato arrivato a sette anni dalla Guadalupa e convertito all’islam dopo l’omicidio di un amico d’infanzia.

“La mia scuola è stata la strada, quando ancora il rap non era completamente nelle mani del mercato”, dice con l’aria di chi si sente già un veterano. “All’epoca potevi incontrare Speaker Cenzou a piazza Vanvitelli o a piazza del Gesù, o anche La Famiglia, tutta la prima ondata del rap napoletano, anche se sono cresciuto artisticamente con i Co’ Sang”. Prima ancora, Danilo aveva cominciato ad ascoltare musica dalle cassette pirata “che ci scambiavamo con gli amici”, quando spopolavano le compilation mixed by Erry, veri e propri falsi d’autore che solo chi è cresciuto tra i confini della Campania negli anni novanta può ancora oggi ricordare come un oggetto di culto. Aveva anche messo in piedi un piccolo business: “Registravo i video e li rivendevo agli amici, facendo concorrenza a un negozio nigeriano”, ricorda con la nostalgia di chi ha fatto in tempo a conoscere un’epoca predigitale che ha segnato una generazione ed è invece ignota ai sedicenni di oggi.

È con questo background culturale che è entrato nella comunità islamica napoletana. “La moschea era un posto che non incuteva soggezione come una qualsiasi chiesa piena di simboli e statue. Potevi discutere, studiare, ma soprattutto potevi sentirti parte di una comunità, che era proprio quello che mi mancava. A casa mia all’inizio non l’avevano presa bene, soprattutto per via del bombardamento mediatico contro i musulmani, però quando hanno visto che la religione mi dava equilibrio ed era per me un fattore positivo hanno cambiato idea. Ricordo che mi insegnò a pregare un bambino palestinese, che rimase sconvolto quando gli dissi che i miei genitori non erano musulmani”.

Danilo è così “tornato all’islam” senza mai essere stato in un paese musulmano e senza conoscere una parola d’arabo oltre al rituale e alle preghiere. Oggi crede che “sia necessario un riformismo islamico, perché bisogna adattare la sharia a quest’epoca storica”, si dichiara estimatore dell’intellettuale svizzero Tariq Ramadan e non va d’accordo con i “fratelli” che, in gergo islamico-napoletano, definisce “azzeccati”, integralisti convinti che la musica vada vietata. Al contrario, lui risponde proponendo una new wave musicale muslim-neapolitan che non è altro che la punta dell’iceberg di un islam fuori dei canoni, in una Napoli dove, scrive il documentarista Pagano, “religione e cultura dialogano, come le zeppole e le sfogliatelle della pasticceria Lauri, che per il ramadan si fanno halal. Metafora dell’integrazione in una città in grado di raccontare fenomeni globali, come l’islamizzazione galoppante, con parole sue”.

In questa capitale del Mediterraneo, secondo l’Ermanno Rea di Mistero napoletano sequestrata dagli americani fin dal dopoguerra, è singolare pure che Danilo Alì Marraffino concluda parafrasando un celebre detto messicano: “Più siamo vicini all’America e più siamo lontani da dio”.

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