07 dicembre 2020 11:54

Agli inizi di giugno 2020 Claudio Dozzo, titolare di una gioielleria a Mestre, ha ricevuto una telefonata dalla sua banca. “Mi hanno chiesto se mi interessava prendere un prestito a condizioni molto vantaggiose”, ricorda. Il parlamento aveva appena approvato il cosiddetto decreto liquidità. Il provvedimento sospendeva fino alla fine del 2020 il pagamento dei debiti pregressi e dava la possibilità ai titolari di piccole attività commerciali di ottenere dalle banche prestiti fino a 25mila euro. Lo stato si faceva garante per l’intera cifra nel caso di insolvenza. I tassi d’interesse erano molto bassi, ed era prevista la possibilità di rientrare in sei anni, cominciando a pagare dal terzo anno.

Dozzo, che ha anche un laboratorio orafo e produce collane e orecchini, ha risposto che non ne aveva bisogno. Gli affari per lui non erano andati male, nonostante il lockdown, perché “le persone durante la chiusura hanno risparmiato molto sugli spostamenti e sulle vacanze, e così chi ha potuto ne ha approfittato per regalarsi un gioiello”. L’istituto di credito ha continuato a cercarlo per giorni consigliandogli di accettare l’offerta, finché un giorno un’impiegata della banca gli ha detto esplicitamente che pensavano che “la mia era un’azienda sana e che volevano usarmi come cavia” per testare sui clienti i nuovi prestiti previsti dalla legge. Il gioielliere alla fine ha acconsentito e quattro giorni dopo “i soldi erano già sul mio conto”.

Negli stessi giorni a Cittanova, nella piana di Gioia Tauro, milleduecento chilometri più a sud, Michele Luccisano cercava di capire come mandare avanti la sua azienda agricola che produce olive, bergamotti e kiwi gialli raccolti nei terreni ereditati dalla sua famiglia. Era sopravvissuto ai tentativi di una delle più potenti cosche della ‘ndrangheta di impossessarsi della sua attività, aveva fatto arrestare e condannare i suoi persecutori subendo per questo attentati e furti, ma in quei giorni rischiava di doversi piegare agli effetti economici della pandemia. “I miei prodotti finiscono in gran parte nel circuito del commercio equo e solidale, da quando il governo ha dichiarato il lockdown ho perso il 65 per cento del fatturato”, racconta. Su consiglio del suo commercialista, appena approvato il decreto liquidità ha chiesto alla sua banca il prestito garantito dallo stato. Agli inizi di dicembre 2020 non ha ancora ottenuto alcuna risposta.

A un altro imprenditore del settore, nella stessa zona, è andata diversamente. La sua banca gli ha proposto di chiedere un prestito – nel frattempo la cifra garantita dal governo era passata da 25mila a 30mila euro – ma a patto che con quei soldi estinguesse un fido precedente, nonostante la moratoria in corso. L’operazione non gli ha consentito di ottenere quello per cui era stata adottata la legge, cioè avere un po’ di liquidità disponibile per mantenere in piedi la sua attività durante la crisi sanitaria. I soldi, formalmente erogati, non gli sono mai arrivati, e la sua unica consolazione è che ora si trova con un prestito da estinguere più conveniente del precedente.

Previsioni cupe
“La verità è che le banche non si fidano, hanno paura di cosa accadrebbe se al termine della moratoria ci fossero insolvenze a catena, per questo non fanno molto affidamento sulla garanzia statale”, spiega l’economista calabrese Tonino Perna.

Già alla fine dello scorso aprile la Banca d’Italia aveva diramato un “alert” sui rischi di insolvenza delle aziende in Italia. Secondo l’istituto, è probabile che alla fine della pandemia almeno un’attività su dieci non riaprirà, costringendo lo stato a pagare almeno il dieci per cento dei 450 miliardi di garanzie pubbliche attivati con i cosiddetti decreti cura Italia e liquidità.

Secondo un altro dossier di Bankitalia, già nel 2019 il deterioramento dei crediti in Calabria aveva portato a una riduzione dei prestiti bancari, diminuiti del 28,5 per cento dal 2008, l’anno della prima grande crisi economica del millennio.

Le difficoltà dei ristoratori
Il problema non riguarda però solo la regione con i peggiori indicatori economici d’Italia. Nella Mestre del gioielliere Dozzo, il coordinatore dell’ufficio studi dell’associazione degli artigiani e delle piccole imprese (Cgia) Paolo Zabeo denuncia che “una parte delle nuove garanzie è andata a colmare i cali del credito” e che “il sistema bancario ha usato una parte dei miliardi stanziati dal governo Conte per abbattere i propri rischi, sfruttando le garanzie statali per estinguere i prestiti già erogati”. In questo modo, a suo parere, gli istituti di credito “hanno azzerato i rischi di incorrere in crediti deteriorati”.

“Funziona così: magari hai un debito con la banca di diecimila euro, te ne arrivano trentamila e con una parte di questi soldi lo ripaghi”, mi spiega Matteo Musacci, che ha un ristorante a Ferrara. Il suo settore è tra i più colpiti dalla stretta creditizia, oltre che dalle misure di contenimento dell’epidemia.

“Molti di noi, pur non avendo grossi problemi economici, non sono riusciti a ottenere il prestito perché siamo considerati a rischio insolvenza”, dice. Il 24 novembre 2020 il presidente della Federazione piccoli esercenti (Fipe) Roberto Calugi era collegato in streaming per un’audizione con la commissione attività produttive della camera. Stava cercando di spiegargli perché pensa che sia una “situazione drammatica” e per farlo ha usato alcuni numeri: 33 sono i miliardi di euro di fatturato persi dall’inizio del 2020, 60mila sono le imprese e 300mila i posti di lavoro a rischio.

Brescia, 6 novembre 2020. (Stefano Nicoli, NurPhoto/Getty Images)

“Alle aziende che stavano bene i soldi sono arrivati, il problema è per tutti quei settori finiti nella lista nera dei possibili insolventi”, mi dice. “Diversi istituti di credito hanno diramato indicazioni interne che indicano le aziende della ristorazione come non affidabili, per questo chiedono fideiussioni accessorie fino al 150 per cento del finanziamento”, spiega ancora. A suo parere, il rischio maggiore è che “quegli imprenditori che non vedono la luce in fondo al tunnel possano rivolgersi agli usurai o, ancora peggio, consegnare la loro attività a prestanome della criminalità organizzata”.

Paolo Capurro vive e lavora a Genova, e rappresenta un altro dei settori considerati molto poco affidabili dalle banche: il catering. L’azienda di famiglia, fondata da un suo trisavolo nel 1901, non aveva mai chiuso, neppure durante le due guerre mondiali. Ora è ferma da febbraio 2020, fatta eccezione per una finestra di venti giorni a settembre, perché i matrimoni “sono stati tutti riprogrammati” e molti convegni ed eventi pubblici sono stati annullati.

“Il nostro calendario si è svuotato e non si sa quando riprenderemo”, dice, stimando un crollo del fatturato del 70 per cento per il 2020. Spiega che con imprenditori come lui, spesso titolari di ditte individuali, le banche fanno molte resistenze prima di concedere il prestito garantito dallo stato. Quando succede, chiedono “garanzie personali”, come l’ipoteca su un’abitazione o su altri beni. “Chi le ha le mette, chi non può fornirle fallisce”, dice Calugi.

Le cifre messe in campo dal governo per permettere alle aziende di accedere al credito, e alle banche di concederlo senza rischiare troppo, sono di tutto rispetto: 94,7 miliardi di euro sono garantiti dall’agenzia per il credito (Sace) controllata al cento per cento da Cassa depositi e prestiti e dal fondo di garanzia per le piccole e medie imprese. Finora però, denuncia la Cgia, usando queste garanzie le banche hanno erogato solo 32,5 miliardi di prestiti, e in gran parte i soldi sono finiti alle aziende considerate sicure, vale a dire quelle meno penalizzate dalla pandemia.

Complessivamente, secondo le stime di Confcommercio, sono state presentate un milione e 280mila domande di prestiti, delle quali 900mila in base al decreto liquidità. In totale sono stati concessi 19 miliardi di finanziamenti, per una media di 20mila euro ad azienda. Nonostante queste cifre, la Cgia di Mestre dice che in Italia nel primo semestre del 2020 4.446 piccole aziende hanno abbassato le saracinesche, “contribuendo alla desertificazione dei centri storici e delle periferie, e peggiorando il volto urbano delle nostre città”.

La bolla dei crediti inesigibili
“La verità è che il decreto liquidità è stato fatto per le banche, che hanno sistemato i bilanci e hanno le casse piene perché nessuno spende e i ricchi hanno guadagnato ancora di più nonostante la recessione”, afferma Mario Pianta, professore ordinario di politica economica alla Scuola normale superiore di Firenze. “La legge approvata consente agli istituti bancari di non imputare i crediti sospesi come deteriorati e dunque come una sofferenza, però prima o poi questa bolla creditizia rischia di esplodere”, spiega il direttore generale di Banca Etica Alessandro Messina.

Gli ultimi dati ufficiali della Banca d’Italia sono del 25 novembre 2020 e parlano di 2,7 milioni di richieste di moratoria avanzate da piccole e medie imprese, per un totale di 301 miliardi di euro. L’Associazione bancaria italiana è preoccupata dal fatto che le banche potrebbero chiudere i bilanci in attivo, avere tanta liquidità nelle proprie casse ma ritrovarsi improvvisamente, alla fine della moratoria, con un ammontare ingestibile di crediti inesigibili.

“Oggi quando si prestano dei soldi il rischio è molto alto, le banche preferiscono finanziare grandi operazioni come Alitalia o Autostrade perché di mezzo c’è la politica, quelle facili come i mutui per acquistare una casa, e si contendono le aziende migliori, mentre intorno agli artigiani c’è il deserto”, spiega Messina. A preoccupare ancora di più è l’imminente entrata in vigore, da gennaio 2021, della nuova definizione europea di default, in base alla quale qualsiasi cliente che presenti un arretrato di novanta giorni sarà considerato “inadempiente”. Con questi criteri le banche temono che senza la moratoria gran parte delle aziende che l’hanno chiesta finirebbero automaticamente nella “lista nera” e lo stato sarebbe subissato dalle richieste di pagamento per i creditori insolventi. Per questo molti imprenditori si sono visti approvare il prestito a patto di estinguere, del tutto o parzialmente, i debiti pregressi. La domanda da porsi, per il banchiere Messina, è “quante aziende piccole e piccolissime sopravvivranno alla pandemia e alla stretta del credito”.

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