26 maggio 2020 11:03

Un gruppo di ragazzini di dieci e dodici anni si tuffa in mare. Una ragazza bassina con le lentiggini rimane sulla spiaggia e si copre con un asciugamano fucsia, un ragazzo glielo ruba e scappa, si rincorrono sul bagnasciuga. Il cielo è coperto da nuvole e all’orizzonte s’intravede il profilo azzurrino di Ischia. Nonostante il caldo torrido di fine maggio sulla spiaggia deserta del Destra Volturno, sul litorale domizio, non ci sono che ragazzini: non sono andati a scuola, oggi come negli ultimi due mesi, per via della pandemia di coronavirus.

Le lezioni online molti di loro non riescono a seguirle, perché non hanno i computer a casa, così da qualche giorno si ritrovano sulla spiaggia deserta a destra della foce del fiume Volturno, uno dei tratti di litorale campano più familiare, perché negli ultimi anni è diventato il set di molti film, tra cui Gomorra di Matteo Garrone. Proprio su questa spiaggia il regista ha girato alcune delle scene più note del film, come quella dei ragazzini Marco e Ciro, che dentro a un palazzo abbandonato giocano a spararsi, imitando Tony Montana in Scarface e gridando: “Tutto il mondo è nostro, deve essere tutto nostro”.

Più di dieci anni dopo l’uscita del film, nella testa della maggior parte delle persone Castel Volturno è ancora l’immagine stereotipata che la pellicola di Garrone ha contribuito a costruire: quella di un’area depressa, dominata dalla criminalità organizzata, crocevia d’interessi illegali, ingovernabile torre di Babele, “polveriera pronta a esplodere” come l’aveva definita l’ex sindaco Dimitri Russo in un’intervista di qualche anno fa. Un’immagine che tuttavia è spesso diventata un alibi per non intervenire o farlo il meno possibile.

La macchina della verità
La pandemia di coronavirus, tuttavia, è stata come una macchina della verità: in poche settimane ha mostrato tutte le contraddizioni, le questioni irrisolte e le specificità dei territori più abbandonati. A Castel Volturno il confinamento ha interrotto le attività economiche sia nell’agricoltura sia nell’edilizia e negli altri settori dell’economia (anche informale) e molte famiglie hanno sperimentato una crisi sociale ed economica senza precedenti.

“Abbiamo ricevuto chiamate di persone che non mangiavano da cinque giorni”, racconta Sergio Serraino, responsabile dell’ambulatorio di Emergency, attivo nella città campana dal 2013. Secondo Serraino, nel territorio l’emergenza è stata più sociale che sanitaria. In tutto sono stati registrati infatti solo 14 casi positivi al covid-19, ma il rischio era che le persone continuassero a uscire di casa e a non rispettare le misure restrittive per andare a lavorare, non potendo rinunciare ai pochi introiti economici giornalieri.

“Ci siamo concentrati soprattutto sull’aspetto informativo, abbiamo prodotto dei video per spiegare ai cittadini sia italiani sia stranieri le regole del distanziamento sociale e la necessità di non uscire, ci siamo serviti dei mediatori per registrare un video anche in inglese, che è la lingua parlata dalle due comunità di stranieri maggiormente presenti sul territorio: i ghaneani e i nigeriani”, spiega Serraino. Ma se non ci fosse stata una rete di associazioni già molto attiva sul territorio, riunita sotto il nome Castel Volturno solidale probabilmente sarebbe esplosa la rabbia sociale. “Il timore era davvero che qualcuno soffrisse la fame, soprattutto i bambini”, conclude.

Daniele Moschetti, prete comboniano che lavora a Castel Volturno da 24 anni, dopo diverse missioni in Kenya, Palestina e Sud Sudan, spiega che la rete dei volontari ha raggiunto 12mila persone, “circa 3.500 famiglie con i pacchi spesa”. Caritas, Centro Fernandes, Movimento dei migranti e rifugiati di Caserta, i padri comboniani e l’ex Canapificio di Caserta hanno allestito un centralino in collaborazione con il comune e con la protezione civile e hanno preso in carico tutte le richieste di aiuto. Hanno raccolto i fondi e distribuito i pacchi alimentari, ma anche gli aiuti per i bambini e le bombole del gas. “Alcune persone avevano da mangiare, ma non potevano cucinare perché avevano finito il gas”, racconta Moschetti.

Una delle peculiarità di Castel Volturno, infatti, è l’assetto urbanistico, che in parte spiega anche la composizione sociale del luogo. La cittadina di 27mila abitanti a nord di Napoli si estende per 27 chilometri lungo la via Domiziana e conta 40mila abitazioni abusive, in molti casi ormai cadenti, un quarto delle quali sorge su terreni di proprietà pubblica, frutto di una speculazione selvaggia cominciata negli anni sessanta. Il caso più famoso è quello del Villaggio Coppola di Pinetamare, per lungo tempo il quartiere abusivo più grande d’Europa, una zona residenziale in riva al mare che avrebbe dovuto ospitare quattromila persone, destinata soprattutto ai marines americani della base militare Nato di Napoli.

“I miei genitori sono venuti in viaggio di nozze a Castel Volturno da Caserta negli anni settanta, perché i casertani e i napoletani consideravano questo litorale un luogo rinomato”, spiega Giampaolo Mosca, operatore legale dell’ex Canapificio di Caserta, mentre mostra gli edifici ormai scrostati, ma in alcuni casi ancora graziosi, delle villette abusive sorte all’interno di una vasta pineta che arriva sul mare. Ma a partire dagli anni ottanta la zona si è trasformata in un ghetto dove sono stati trasferiti migliaia di sfollati da Napoli e dall’Irpinia, in seguito al terremoto del 1980.

Una lunga storia di lotte
La partenza dei militari americani e l’arrivo degli sfollati hanno determinato un cambiamento sociale radicale. “Affittare queste case costa molto poco, con cinquanta euro al mese si affitta una stanza, con 250 euro al mese si affitta una casa”, continua Mosca. Per questo motivo, oltre che per le economie informali che caratterizzano il territorio in particolare in settori come l’agricoltura e l’edilizia, a partire dagli anni ottanta la zona ha attirato le prime comunità di immigrati arrivate in Italia. “Passeggiare per Castel Volturno è come sfogliare un bignami della storia dell’immigrazione straniera in Italia”, racconta Vincenzo Fiano, operatore dell’ex Canapificio di Caserta. E soprattutto dei fallimenti delle politiche dell’immigrazione del paese.

In una baracca di Villa Literno, a dieci chilometri da Castel Volturno, il 23 agosto del 1989 fu ucciso Jerry Essan Masslo, un bracciante sudafricano impegnato nella raccolta dei pomodori insieme ad altri seimila stranieri. L’omicidio compiuto da quattro uomini del posto, che volevano derubare i braccianti delle loro paghe, diventò il simbolo delle condizioni di vita degli irregolari, sfruttati nei campi di pomodori italiani, ma fece emergere anche l’assenza di una legge sull’immigrazione e sull’asilo in Italia. Masslo infatti era un attivista antiapatheid in Sudafrica, ed era scappato dal suo paese per sottrarsi alla persecuzione politica, ma non era riuscito a farsi riconoscere nessuna forma di protezione al suo arrivo in Italia, perché all’epoca era concesso l’asilo solo a chi fuggiva da alcuni paesi (quelli sovietici), la cosiddetta riserva geografica.

Mary Sado, 33 anni, viene dalla Nigeria. Vive a Castel Volturno, dove prima dell’emergenza sanitaria faceva la parrucchiera. 27 aprile 2020. (Alessandra Tarantino, Ap/Lapresse)

L’omicidio di Masslo provocò uno shock tra i braccianti stranieri, ma anche nell’opinione pubblica italiana e un mese dopo gli stranieri organizzarono uno sciopero e una manifestazione. Come ricostruito dal giornalista Antonello Mangano e dallo storico Michele Colucci: “Nella lettera aperta che viene volantinata ai passanti è palpabile l’attenzione a non voler dichiarare una guerra tra italiani e stranieri: ‘La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che voi lavoratori italiani avete saputo conquistare. Non siamo disposti a essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Chiediamo di appoggiarci in questa lotta’”. Il 7 ottobre dello stesso anno a Roma scesero in piazza duecentomila persone per chiedere che in Italia fosse approvata una legge sull’immigrazione. Obiettivo che in effetti fu raggiunto l’anno successivo, nel 1990, con l’approvazione della legge Martelli.

Oggi come allora la preoccupazione maggiore degli irregolari che vivono in quest’area è quella di ottenere il permesso di soggiorno. Tutti gli altri problemi vengono dopo: dal lavoro alla salute. “La maggior parte di quelli che vivono in questa zona non lo fanno per scelta, sono costretti a vivere qui. Se avessero il permesso di soggiorno, sarebbero più liberi di lasciare questo posto per cercare lavoro da un’altra parte”, spiega Doe Prosper, leader del Movimento dei migranti e dei rifugiati di Caserta, che vive a Castel Volturno dal 2002.

“I residenti si lamentano del fatto che qui ci sono troppi migranti e rifugiati, ma l’unico modo per fare sì che se ne vadano, sarebbe regolarizzarli”, continua Prosper, che ha lavorato inizialmente come muratore a giornata, ma ora ha un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, perché in passato ha avuto la possibilità di convertire la sua protezione umanitaria in un permesso di lavoro, dopo aver ottenuto un contratto.

“La camorra, la mafia approfittano di loro, i padroni li sfruttano nei campi e nei posti di lavoro, ma non vanno a denunciare perché hanno paura, spesso non sono pagati, o sono picchiati nei campi”. E la recente sanatoria per gli irregolari approvata dal governo Conte con il decreto Rilancio non convince fino in fondo le associazioni di migranti e rifugiati che da anni si battono per i loro diritti nella provincia di Caserta: stimano che solo il 20 per cento degli irregolari riuscirà a regolarizzarsi, molti continueranno a essere invisibili, perché non hanno datori di lavoro disposti a metterli in regola oppure perché lavorano in settori non previsti dalla sanatoria, come l’edilizia, la ristorazione o l’artigianato.

“Bisognava fare una sanatoria per tutti i tipi di lavori, se si voleva risolvere il problema”, continua Prosper. Anche perché nella zona si pagano ancora le conseguenze prodotte dal cosiddetto decreto Salvini, che nel 2018 ha creato molta irregolarità, abolendo la protezione umanitaria.

Una misura insufficiente
Una delle circa seicento persone residenti in zona, diventate irregolari con la legge Salvini, è Emmanuel Jamas, un uomo di origini nigeriane che vive in Italia dal 2003, insieme a sua moglie Suzi e ai loro cinque figli.”I ragazzi sono tutti nati in Italia, vanno a scuola a Castel Volturno, giocano nella squadra di calcio e di basket del paese e ora senza documenti temono di non poter svolgere tutte le loro attività con i loro compagni. Ogni giorno mi chiedono che ne sarà di noi”, dice il capofamiglia, mentre i quattro ragazzi più grandi lo ascoltano in religioso silenzio, seduti su una panchina. L’ultimo nato, Flish, ha sette mesi, e dorme avvolto in una fascia colorata che la madre si è stretta sulla schiena.

Jamas ha lavorato per sei anni in un’azienda di costruzioni di Pozzuoli, guadagnando 900 euro al mese, poi in un albergo, quindi ha cominciato a lavorare saltuariamente in maniera irregolare, e questo gli ha impedito di trasformare la sua protezione umanitaria in un permesso di lavoro. Quando la protezione è scaduta, per il decreto Salvini non l’ha potuta rinnovare. Vive in una casa che paga 250 euro al mese, in nero. “Sono molto confuso da quest’ultima legge, io vorrei rimanere in questo paese dove sono nati i miei figli, ma non so come fare”, afferma. James, il ragazzo più grande, continua ad assistere alle partite di basket della sua squadra, anche se non può giocare.

Anche sui numeri non c’è concordia: il sindaco di Castel Volturno, Luigi Petrella di Fratelli d’Italia, sostiene che sul territorio vivano circa ventimila irregolari su una popolazione di 27mila persone, mentre secondo le organizzazioni che si occupano di immigrazione gli stranieri sono diecimila in tutto, tra irregolari e regolari. Durante il confinamento a Castelvolturno le rotonde si sono svuotate: per due mesi i braccianti non sono andati più “a fare la piazza” o il “califfo ground”, come si dice da queste parti, cioè non si sono più fatti trovare lungo la strada la mattina presto, nei punti prestabiliti, ad aspettare di essere reclutati per andare a lavorare in campagna o nell’edilizia.

C’erano troppi controlli, troppe volanti della polizia agli angoli delle strade, così anche il sistema informale di reclutamento su cui si fonda l’agricoltura da queste parti si è fermato. Lo racconta Bawa Gado, bracciante ghaneano, straniero, irregolare, arrivato in Italia dalla Libia via mare nel 2006. Gado ha ottenuto la protezione umanitaria per due anni, ma anche lui a causa del decreto Salvini l’ha persa. Ha lavorato sempre in nero nella zona. “Lavoro in campagna, mi chiamano di giorno in giorno. Guadagno al massimo trenta euro, non lavoro sempre”, racconta. Ma per l’epidemia si è dovuto fermare per più di due mesi. “Senza lavoro, senza soldi”.

Ha vissuto in casa con un suo amico a Pescopagano, una frazione di Castel Volturno dove l’80 per cento della popolazione è immigrata. Ora il suo amico ha ricominciato a lavorare, mentre lui non riesce ancora a trovare niente. “Tra le persone che hanno perso il diritto ad avere un permesso di soggiorno in questa zona ci sono molte vittime di tratta, soprattutto nigeriane. Hanno paura a denunciare i loro sfruttatori, ma senza documenti è ancora più difficile”, racconta Cristiana Vozza, operatrice legale del Servizio Siproimi dell’ex Canapificio di Caserta.

“La sanatoria avrebbe dovuto essere generalizzata e inoltre un permesso di ricerca lavoro per sei mesi, dal momento in cui si fa la domanda, è ridicolo. Sei mesi sono troppo pochi”, incalza Giampaolo Mosca, operatore legale dell’ex Canapificio di Caserta. “Ci saranno delle distorsioni, molti proveranno a fare contratti da badanti, molti andranno incontro a truffe”, continua Mosca. In uno dei territori più interessati dalla presenza di irregolari, la sanatoria rischia così di avere effetti minimi. “Per Castel Voturno non è stato mai immaginato un progetto di sistema su un territorio che presenta delle specificità importanti”, conclude Vincenzo Fiano, che spera in un miglioramento del decreto in sede parlamentare, ma che allo stesso tempo dice di sentirsi abbandonato dagli amministratori locali e nazionali. L’ex Canapificio, che gestisce anche un centro di accoglienza a Caserta, ed è un punto di riferimento per gli immigrati della zona al momento è senza una sede.

Prima di andare via, ci fermiamo davanti al monumento dedicato a Miriam Makeba, la cantante sudafricana, morta proprio a Castel Volturno, al termine di un concerto dedicato allo scrittore minacciato dalla Camorra, Roberto Saviano, e alle vittime della cosiddetta strage di Castel Volturno, l’eccidio di sei immigrati ghaneani compiuto dei Casalesi di Giuseppe Setola, il 18 settembre 2008. Tutti a Castel Volturno si ricordano quel concerto, la rabbia che aveva provocato quella strage ai danni di ragazzi molto giovani, nessuno di loro era implicato in questioni criminali. Il monumento a Makeba è circondato dalle erbacce e si vede a fatica dalla strada, come la memoria delle lotte che hanno portato a conquistare i diritti dei lavoratori stranieri in questo territorio, una memoria che sembra dimenticata.

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