04 settembre 2020 16:21

Shabbaz Stuart era un neonato quando il telefilm Seinfeld è andato in onda la prima volta, e aveva otto anni quando è stato trasmesso l’ultimo episodio di questa amatissima serie “sul nulla”. L’ha conosciuta solo come una di quelle repliche notturne divertenti, da vedere quando non hai niente da fare.

Ma negli ultimi giorni è stato impossibile evitare Seinfeld, o almeno il suo creatore e interprete principale Jerry Seinfeld, tornato agli onori della cronaca con un editoriale sul New York Times intitolato “E quindi pensate che New York sia ‘morta’”. Il comico ha risposto così a un provocatorio post su Linkedin di James Altucher, amministratore di un fondo d’investimento e proprietario di un locale di standup comedy dell’Upper West Side dove ogni tanto Seinfeld fa un’apparizione.
Seinfeld ha fustigato Altucher, dandogli del “putz” (coglione) per aver sostenuto che New York è “morta per sempre”. Secondo Altucher la pandemia ha trasformato Midtown Manhattan in una città fantasma, spingendo i suoi amici di Wall street a squagliarsela, probabilmente per non tornare mai più.

La risposta di Seinfeld è stata stringata: “Taci. Non me ne andrò mai da New York. Mai”.

La domanda sbagliata
Shabbaz Stuart, dal suo punto d’osservazione di un tipico edificio a mattoncini condiviso con altre persone a Crown Heights, a Brooklyn, ha trovato divertente questo scontro pubblico tra celebrità sul futuro della sua città. Per Stuart si tratta di due straricchi abitanti di Manhattan che si attaccano a vicenda in termini con i quali lui, come milioni di altri cittadini in difficoltà di altri quartieri di New York, semplicemente non può immedesimarsi.

“Non capisco bene l’utilità di avere due tipi dell’élite e molto ricchi che discutono se New York sia morta o meno”, spiega. “I loro argomenti hanno poca presa sui miei amici che si chiedono se restare o andarsene, dato che nessuno di noi dispone di quel genere di ricchezza”. Secondo Stuart chiedersi se “New York è morta” significa farsi la domanda sbagliata. Ha più senso esaminare i problemi strutturali già presenti in città molto prima dell’arrivo del covid-19. “Avendo vissuto da sempre a New York, capisco che Seinfeld voglia difendere la città, ma questo serve solo a mascherare i problemi. Il covid ha semplicemente fatto da innesco: la nitroglicerina era lì da tempo”.

Il problema principale, che precede di molti anni l’esplosione del covid-19, è il costo degli affitti

Stuart è un afroamericano newyorchese di 31 anni, e dirige una startup, Oonee, aperta per costruire parcheggi sicuri per biciclette. La sua azienda ha avuto successo in altri centri urbani degli Stati Uniti, ma ha faticato a ottenere una risposta positiva dalle autorità di New York, in contrasto con l’immagine coltivata dalla Grande mela, di città all’avanguardia e dinamica, dove nascono e fioriscono idee nuove. “New York approfitta della fama di essere grande e audace, di coltivare nuove idee, ma la nostra esperienza ci dice qualcosa di diverso. La città non è coraggiosa, è compiaciuta”, osserva Stuart.

Durante la pandemia, tutto ciò che Stuart amava di più di New York – i ristoranti, i club da ballo, i locali aperti per bere alle quattro del mattino, i musei – è stato chiuso o limitato. Poi c’è la spazzatura, un altro vecchio problema della vita newyorchese che lo infastidisce. “Ogni tanto scendo in strada e la spazzatura è ovunque”, dice. “Adoro New York ma non ho mai visto un’altra città con simili problemi di gestione dei rifiuti”.

Ma il problema principale, che precede di molti anni l’esplosione del covid-19, è il costo degli affitti. Alcuni studi hanno mostrato che più di quattro newyorchesi su dieci che vivono in affitto sono “burdened”, piegati da questa spesa, ovvero spendono un terzo o più del loro reddito per l’alloggio. Di questi, più di metà paga il 50 per cento o più del proprio reddito. Stuart è uno di loro. Attualmente paga a sé stesso un salario, ridotto a causa della pandemia, di duemila dollari al mese. Di questi, 1.400 scompaiono per una stanza singola nel suo brownstone condiviso.

Oggi scopre di non essere solo. Ciascuno degli inquilini della casa da sette stanze in cui vive, spiega, si sta facendo la stessa domanda: “Ha senso pagare un affitto così alto quando potrei andare a Filadelfia o a Pittsburgh e avere una migliore qualità della vita?”.

Un complesso di sopravvivenza
New York si è sempre chiesta come preservare la sua immagine di metropoli vibrante. Lo si potrebbe definire un complesso di sopravvivenza. “Da quando King Kong è salito sull’Empire state building, l’immagine della città è diventata precaria”, spiega Kenneth Jackson, eminente storico di New York della Columbia University. “E in molti casi è vero. Non è quindi assurdo interrogarsi su queste cose”.

Ma finora le voci sul declino di New York si sono rivelate esagerate, come dopo gli attacchi alle torri gemelle dell’11 settembre del 2001, quando era stato detto che i newyorchesi non avrebbero più accettato di lavorare in cima ai grattacieli di Manhattan, e che la metropolitana sarebbe rimasta deserta per paura di altri attentati terroristici.

In pochi mesi la città si è trasformata da paria del covid-19 degli Stati Uniti, e anzi del mondo, a esempio di ripresa dalla malattia

Non è accaduto niente del genere, e secondo Jackson oggi si ripropongono considerazioni simili. “Come per l’11 settembre, la città si risolleverà da questa pandemia. Ci vorrà del tempo, magari non il mese prossimo, e neanche il prossimo anno, ma si riprenderà. Nessuno guadagna scommettendo contro New York”, dice.

I segni della ripresa sono, in un certo senso, già visibili. Rispetto ai giorni più bui di marzo e aprile, quando la vita della città era scandita dalle sirene delle ambulanze e una paura palpabile del microbo aleggiava nell’aria, la città sembra rinata.

Nel momento più difficile a New York si registravano oltre seimila nuovi casi confermati di covid-19 al giorno, che hanno portato il totale a quasi 238mila, praticamente la stessa identica cifra di tutta la Germania. Il giorno peggiore, il 6 aprile, sono stati registrati 810 decessi.

Oggi invece il numero quotidiano di nuovi casi si aggira intorno ai 250 e i morti sono circa cinque.

In pochi mesi la città si è trasformata dal paria del covid-19 degli Stati Uniti, e anzi del mondo, all’esempio di ripresa dalla malattia. Il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, al comando delle operazioni nel momento della catastrofe iniziale, e che ancora oggi avrebbe molto di cui rendere conto, ha avuto addirittura l’ardire di scrivere un libro sulla sua gestione della crisi.

Il posto delle scomode verità
L’inversione di rotta post-covid 19 è stata così spettacolare che è facile immaginare Seinfeld mentre si gode la vista dalle finestre del suo attico di Manhattan, grato per il ritorno in forze della città. Ma la New York di Seinfeld, la New York che buona parte del mondo finisce indirettamente per conoscere grazie a film e riviste patinate, somiglia pochissimo alla vita reale che scorre dall’altra parte del fiume Harlem, nel Bronx. Qui non serve grattare la superficie troppo in profondità per scoprire le ferite sanguinose e ancora aperte dell’ingiustizia razziale. Qui la pandemia ha reso evidenti alcune scomode verità della città.

Tutto è cominciato quando sono emersi i dati sull’andamento della malattia e dei decessi. Quando il covid-19 ha cominciato a diffondersi, è apparso chiaro che il virus stava crudelmente concentrando la sua attività distruttrice su alcune porzioni della popolazione. Le persone colpite dal virus morivano nel Bronx – dove la popolazione è quasi al 90 per cento nera e latinoamericana – quasi più del triplo che a Manhattan, dove la componente demografica principale è bianca.

I dati a disposizione suggeriscono che se ne siano andate soprattutto persone bianche e ricche

Quando il virus è stato contenuto, il problema è diventato economico. Durante la pandemia James Parrott, economista al Center for New York City affairs della New School, ha realizzato una serie di studi approfonditi che evidenziano la gravità della crisi. Ha scoperto che, nonostante a giugno il tasso ufficiale di disoccupazione in città fosse del 20 per cento, la cifra effettiva misurata in base ai sussidi di disoccupazione era del 33 per cento. Un numero che nel Bronx sale a uno sconvolgente 41 per cento.

Questi uomini e donne disoccupati del Bronx, perlopiù persone non bianche, sono i newyorchesi esclusi dalla bolla nella quale bisticciano Seinfeld e Altucher. Nel Bronx la gente non ha il tempo di sedersi e pontificare sul fatto che New York sia morta o meno, perché è troppo impegnata a sopravvivere e a far sopravvivere le proprie famiglie.

Si ritiene che fino al 5 per cento della popolazione di New York – più di quattrocentomila persone – abbia lasciato la città all’inizio della pandemia. Alcuni hanno attraversato in auto Long Island fino agli Hamptons, altri si sono spinti oltre, magari in Florida, dove Altucher dice oggi di aver ricominciato la sua vita.

Anche se ancora grossolani, i dati a disposizione suggeriscono che la maggior parte di chi è partito era bianca e ricca. Il che è logico: nelle zone più povere di Bronx, Queens e Brooklyn, la fuga non è un’opzione percorribile. “A New York rimane chi ha perso il lavoro e il salario”, spiega Parrott. “Sono persone radicate qui, non possono permettersi il lusso di trasferirsi altrove”.

Le ricerche di Parrott rendono evidente le disuguaglianze che si nascondono dietro la perdita del posto di lavoro. Laddove i lavoratori a basso reddito, perlopiù neri o latinoamericani, dei settori non virtuali hanno conosciuti livelli di disoccupazione devastanti – 61 per cento nell’intrattenimento, 56 per cento nei servizi alimentari, 49 per cento negli alberghi – il calo dell’occupazione per i remunerativi impieghi di Wall street è stato di appena il 3 per cento.

Le difficoltà cominciano a farsi sentire. A fine luglio il sussidio supplementare di disoccupazione da seicento dollari alla settimana ha smesso di essere versato, e le domande per i buoni alimentari sono già aumentate del 13 per cento dall’inizio della pandemia. Si ritiene che più di due milioni di newyorchesi soffrano d’insicurezza alimentare: un milione in più di prima della pandemia.

Una realtà concreta
La situazione più preoccupante di tutte, secondo le analisi di Parrott, è quella dei quasi 250mila migranti senza documenti distribuiti in tutta la città, arrivati a New York per lavorare e che ora passano inosservati e non ricevono alcuna forma d’assistenza finanziaria. Data l’invisibilità di queste comunità di cittadini che vivono nell’ombra, il loro destino è perlopiù ignoto. “Le difficoltà economiche non sono finite”, dice Parrott. “Per le persone sta diventando sempre più complicato pagare l’affitto, e la domanda d’assistenza alimentare è senza precedenti. La fame è una realtà tangibile”.

Uché Blackstock, newyorchese di nascita, ha osservato con crescente inquietudine il modo in cui la pandemia ha devastato la sua città. Lavorando come dottoressa in un pronto soccorso di Brooklyn, era sul campo agli inizi della pandemia, quando gli ospedali hanno cominciato a essere inondati di statunitensi malati e morenti, in gran parte non bianchi.

In seguito ha osservato che molti degli abitanti bianchi della sua cooperativa residenziale di Clinton Hill hanno lasciato la città per rifugiarsi nelle loro seconde case. Quando, di recente, i suoi due figli sono tornati a frequentare la scuola pubblica locale, è emerso che il numero degli allievi era sceso da mille a 750.

“Le comunità non bianche sono state doppiamente colpite”, dice. “Prima per le conseguenze sanitarie del virus, adesso per la perdita di posti di lavoro”.

Nonostante tutto questo Blackstock dice di non avere intenzione di trasferirsi altrove. Può darsi che la città stia agonizzando sotto il peso delle sue ineguaglianze, che sia crudele nelle sue richieste ed esasperante nella sua noncuranza: ma almeno è la sua città. “Forse sono un’idealista, ma penso che noi newyorchesi di nascita abbiamo una resilienza che manca ad altre persone. Capiamo l’unicità di questa città, e cosa significhi vivere qui ora e anche dopo che la pandemia sarà scomparsa”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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