03 gennaio 2022 13:03

Dal sedicesimo piano di un moderno edificio di Vilnius si ammira il Neris, il fiume che attraversa la capitale lituana. Sull’altra riva si trova un quartiere residenziale che in un’epoca lontana era un terreno di caccia, spiega Éric Huang, il nuovo rappresentante di Taiwan, nel suo ufficio nuovo di zecca da dove osserviamo il panorama. Nella stanza accanto gli operai si affrettano a completare gli ultimi lavori. L’inaugurazione della rappresentanza taiwanese ha avuto luogo il 18 novembre. Non era presente nessun funzionario del ministero degli affari esteri, ma c’era una delle figure più importanti della storia recente della giovane democrazia baltica: Vytautas Landsbergis, 89 anni, primo presidente della Lituania indipendente post-sovietica dal 1990 al 1992. “La sua presenza è stata molto significativa. Landsbergis è il simbolo della democrazia e della libertà della Lituania”, spiega Huang, convinto che esistano “molte similitudini” tra il paese baltico e Taiwan.

“Siamo entrambi in prima linea per difendere la democrazia, non soltanto per noi ma anche per il resto del mondo. Abbiamo affrontato le stesse sfide nel corso della nostra storia e dobbiamo resistere alle ambizioni di potenti stati vicini”. È la difficile battaglia dei piccoli paesi: tre milioni di abitanti in Lituania contro i 144 della Russia; 23 milioni a Taiwan contro 1,4 miliardi di cinesi. L’eterna storia di Davide contro Golia.

La Lituania e Taiwan vogliono sviluppare un rapporto che sia anche economico e commerciale. Huang porta come esempio di possibile cooperazione il settore della tecnologia, a cominciare dai satelliti e dai semiconduttori. “Lavoriamo a un progetto di gestione della pesca attraverso la tecnologia satellitare”, precisa.

L’offensiva di Pechino
Landsbergis è stato l’ospite d’onore dell’inaugurazione, ma tocca a suo nipote Gabrielius, alla soglia dei quarant’anni, gestire le conseguenze dell’atto di sfida nei confronti di Pechino. La Cina non ha apprezzato il fatto che la Lituania abbia infranto una regola rispettata da tutti gli altri paesi dell’Unione europea: non utilizzare il nome Taiwan per indicare una rappresentanza dell’isola.

“Ufficio di rappresentanza taiwanese in Lituania”. La targa, collocata a destra di una porta scorrevole, è all’origine dell’ira della Repubblica popolare cinese, che la ritiene un tacito riconoscimento di un territorio che rivendica. Altrove, in Europa, esistono “uffici di rappresentanza di Taipei”, una denominazione meno sgradita. Tuttavia secondo Huang utilizzare il nome della principale città di Taiwan “alimenta la confusione”. In oltre vent’anni di carriera diplomatica (ha lavorato anche negli Stati Uniti, a Chicago) Huang ha potuto constatare che alcuni dei suoi amici stranieri incontravano diverse difficoltà nel trovare il suo ufficio. “Cercavano online il nostro indirizzo, ma non lo trovavano perché era indicato come rappresentanza di Taipei”.

Difficile che queste giustificazioni possano placare Pechino. Dal 2016, con l’avvento al potere a Taipei di Tsai Ing-wen, presidente legata al fronte indipendentista, la Repubblica popolare cinese ha lanciato un’offensiva totale contro gli ultimi alleati diplomatici di Taiwan.

All’inizio di dicembre il Nicaragua è capitolato, e da quel momento sono soltanto 14 i paesi che riconoscono diplomaticamente Taipei: oltre al Vaticano troviamo piccole nazioni del Pacifico, dei Caraibi, dell’America Latina e dell’Africa meridionale. In questo contesto chi opera una scelta controcorrente riavvicinandosi a Taiwan, come la Lituania, viene sottoposto a ogni genere di pressione e rappresaglia da parte del gigante asiatico.

Subito dopo l’inaugurazione dell’ufficio di rappresentanza Pechino ha richiamato il suo ambasciatore in Lituania, mantenendo soltanto un incaricato d’affari. In seguito l’ambasciatrice lituana in Cina è stata espulsa quando le autorità cinesi hanno deciso di ridurre il livello di rappresentanza della Lituania a un semplice ufficio di un incaricato d’affari, che a sua volta è stato chiuso dopo che gli ultimi diplomatici lituani hanno lasciato la capitale cinese, a metà dicembre. Vilnius ha denunciato le sanzioni cinesi imposte sulle sue esportazioni, ma Pechino ha negato. La Lituania ha inoltre allertato l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e ha chiesto aiuto all’Unione europea.

Dal canto suo Bruxelles ha annunciato l’introduzione di nuove misure per contrastare “il ricorso alla coercizione economica da parte dei paesi terzi”. Il 9 dicembre, in occasione della presentazione dell’ultimo strumento giuridico, il commissario europeo al commercio, il lettone Valdis Dombrovskis, ha parlato del conflitto sino-lituano. “La Cina limita il commercio con la Lituania. È evidente che si potrebbe valutare la possibilità che si tratti di una coercizione economica e di conseguenza applicare questo strumento”.

“L’unità e la solidarietà all’interno dell’Unione restano essenziali per difendere i nostri interessi e i nostri valori”, ha aggiunto il commissario. “L’Unione è pronta a opporsi a qualsiasi tipo di pressione politica e misura coercitiva applicate contro uno stato membro”.

La nuova politica lituana risale alla fine del 2020, quando a Vilnius si è insediato un nuovo governo composto da tre partiti di centrodestra, tutti sostenitori di una politica più dura nei confronti di Pechino e allineata a quella dell’alleato americano. La coalizione ha subito promesso di “difendere chi si batte per la libertà, dalla Bielorussia a Taiwan”.

Vilnius, Lituania, 18 novembre 2021. La targa all’ingresso dell’ufficio di rappresentanza di Taiwan. (Petras Malukas, Afp)

“Il mondo postbellico non esiste più. Abbiamo un nuovo paradigma, con le democrazie opposte ai regimi autoritari. Vogliamo schierarci dalla parte delle democrazie, perché la pressione dei grandi paesi autoritari non è un bene per noi”, spiega il parlamentare della maggioranza di governo Matas Maldeikis, esponente dell’Unione della patria/Cristiano-democratici lituani e presidente del gruppo parlamentare incaricato di gestire i rapporti con la Repubblica di Cina (Taiwan).

A maggio scorso Vilnius ha lasciato il gruppo dei 17+1, creato da Pechino nel 2012 e composto fino a quel momento da 17 paesi dell’Europa centrale e dei Balcani, tra cui undici stati dell’Unione europea. Secondo Landsbergis quel formato era stato ideato per “dividere”.

A maggio, su iniziativa della deputata dell’opposizione socialdemocratica Dovilė Šakalienė, il parlamento lituano ha adottato una risoluzione di condanna per il “genocidio degli uiguri” nella provincia cinese dello Xinjiang, alle porte dell’Asia centrale. Due mesi dopo, Šakalienė è stata sanzionata – insieme a quattro istituzioni e a nove parlamentari europei – con il divieto di soggiornare nella Cina continentale, a Hong Kong e a Macao e di fare affari con il paese. Si tratta di una misura simbolica emanata in rappresaglia per le sanzioni imposte dall’Unione contro quattro dirigenti cinesi dello Xinjiang. “Lo Xinjiang è diventato un orribile progetto pilota per la creazione di una distopia orwelliana”, ha dichiarato la parlamentare citando la sorveglianza generalizzata e i campi di rieducazione. Ormai la Lituania, così come Šakalienė, ha conquistato un posto di rilievo nella lista dei “nemici” della Cina, diventando un bersaglio regolare delle conferenze stampa del ministro degli esteri cinese. I portavoce del governo non sono gli unici a veicolare la linea ufficiale. Anche i giornalisti partecipano all’attacco.

Il 20 dicembre un giornalista della radio-televisione della provincia centro-orientale dell’Hubei ha affrontato durante la sua trasmissione i problemi commerciali incontrati da Vilnius. “Ciò che è accaduto alla Lituania è un avvertimento per gli altri paesi dell’Unione europea sulle eventuali conseguenze di un’insistenza nel difendere i loro interessi e i loro valori rifiutandosi di rispettare le regole del governo cinese”. Rispondendo al conduttore, il portavoce Zhao Lijian ha garantito che “alcune persone e forze in Lituania che continuano a essere in combutta con i separatisti indipendenti di Taiwan saranno scaricate nella spazzatura della storia”. Il giorno successivo, intervistato dall’agenzia ufficiale Cina nuova, Zhao Lijian si è soffermato a lungo sulla sorte dei rom in Lituania, vittime di discriminazioni. “Ciò che accade alle minoranze come quella dei rom è soltanto la punta dell’iceberg dei gravi problemi legati ai diritti umani in Lituania. La Lituania vive gravi problemi di violenza domestica, abusi nei confronti dei bambini e altro ancora, e inoltre presenta alti livelli di corruzione all’interno dello stato”.

Alcune settimane prima lo stesso portavoce aveva evocato sul suo profilo Twitter la sorte degli ebrei lituani, la cui comunità fu distrutta durante l’occupazione nazista. “In Lituania in passato si è verificato un massacro di ebrei. Oggi il razzismo resta un grave problema nel paese. Gli ebrei e altre minoranze etniche subiscono gravi discriminazioni”.

Il tweet di Zhao Lijian ha prodotto la replica della presidente della comunità ebraica lituana, Faina Kukliansky: “È assolutamente inaccettabile che si tenti di trascinare la nostra piccola comunità in una discordia bilaterale e internazionale attraverso le menzogne e la manipolazione”.

L’Unione europea ha espresso la propria solidarietà, ma molti paesi si rifiutano di lasciarsi trascinare in una logica da guerra fredda

In poche parole lo scontro tra il piccolo paese europeo e il gigante cinese è ormai senza esclusione di colpi. Ma la Lituania non arretra, sostenuta dai suoi alleati a Washington e Bruxelles. Gli Stati Uniti hanno coinvolto Vilnius nell’alleanza contro la Cina in nome dei “valori democratici”. La Lituania è stata inoltre uno degli ospiti d’onore del “vertice della democrazia” organizzato dal presidente Joe Biden il 9 e 10 dicembre. A margine dell’evento il paese baltico ha co-organizzato un dibattito sulle “voci dei prigionieri politici”. Il presidente Gitanas Nausėda è intervenuto sul tema “rafforzare la democrazia e difendersi dall’autoritarismo”.

Questo conflitto crescente ha un sapore di guerra fredda, con la decisione di alcuni paesi occidentali, tra cui la Lituania, di boicottare diplomaticamente i giochi olimpici invernali di Pechino, che partiranno il prossimo 4 febbraio. Questo sentimento è particolarmente percepibile in Lituania, dove le tracce dell’occupazione sovietica, dal dopoguerra al 1990, sono ancora molto presenti.

Per spiegare il proprio impegno, Dovilė Šakalienė, esponente dell’Alleanza interparlamentare sulla Cina (Ipac), una rete internazionale di deputati e senatori fondata nel 2020, ha ricordato i suoi nonni, incontratisi nei campi di lavoro in Siberia dove erano stati deportati dai sovietici. “Ciò che accade in Cina ci ricorda l’epoca sovietica e il comunismo, con le sue violazioni dei diritti umani su scala industriale e una potente macchina della propaganda che cercava di convincere il mondo che tutto andasse bene”.

Maldeikis si definisce esponente di una “generazione delle barricate”, quelle erette dalla popolazione di Vilnius nei pressi dell’attuale parlamento per opporsi all’intervento militare sovietico nel gennaio del 1991. All’epoca, ha ricordato Maldeikis, la piccola isola di Taiwan era stata uno dei pochi paesi a manifestare la propria solidarietà nei confronti dell’indipendenza lituana. Oggi il parlamentare si dice preoccupato dal pugno di ferro utilizzato da Xi Jinping, numero uno cinese che “si avvicina a Lenin e Mao Zedong”.

Se l’Unione ha espresso la propria solidarietà, molti paesi (a cominciare dalla Francia) si rifiutano di lasciarsi trascinare in una logica da guerra fredda. Come sottolineato in un rapporto pubblicato a settembre dal centro di ricerca European Council on Foreign Relations (Efcr), in molti paesi dell’Unione esiste una spaccatura tra la percezione di questo conflitto da parte dei cittadini e la loro convinzione che il problema non riguardi il loro paese.

Secondo uno dei due autori del rapporto, il direttore dell’Efcr Mark Leonard, “contrariamente a ciò che è accaduto durante la prima guerra fredda gli europei non percepiscono una minaccia esistenziale immediata per il vecchio continente, né un sentimento di coesione ideologica all’interno del mondo libero”. Il secondo autore, il presidente del Centre for Liberal Strategies Ivan Krastev, sottolinea che “il fatto che sia Bruxelles ad aver assunto una posizione critica e imponga sanzioni ai regimi autoritari fa in modo che l’Unione venga percepita come una voce americana in Europa piuttosto che una voce europea nel mondo”.

Al ministero degli esteri di Vilnius, il viceministro Mantas Adomėnas punta molto sulla nuova coalizione di governo tedesca, dove l’ecologista Annalena Baerbock, nominata ministro degli esteri, ha chiesto “un dialogo e una posizione ferma” con la Cina. “Berlino ha capito in ritardo che il mondo è cambiato, ma è incoraggiante vedere che la più importante economia dell’Unione si è finalmente evoluta. Mi aspetto dalla Germania una maggiore leadership e una politica più realista”. Per il momento, però, Berlino continua a esitare. Il 21 dicembre, in occasione del loro primo contatto telefonico, il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente cinese Xi Jinping si sono impegnati a rafforzare i rapporti economici tra i due paesi. Secondo i resoconti ufficiali i due non hanno affrontato il problema dei diritti umani.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal sito d’informazione francese Mediapart.

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