25 marzo 2017 10:40

Comincio questo breve viaggio nella comunità senegalese a Cagliari partendo da alcuni dati, due pregiudizi e due idee romantiche.

I dati dicono che in Sardegna i senegalesi sono la terza comunità di cittadini stranieri residenti: 4.211 persone (al 1 gennaio 2016, dati Istat), che vivono soprattutto nelle province di Cagliari e Sassari. Da questa cifra, restano fuori i non residenti arrivati negli ultimi anni. Le donne sono solo 614, quella senegalese è infatti un’emigrazione prevalentemente maschile.

Sono, fra tutti gli stranieri, i più visibili. Alcuni lavorano come pastori o in campagna, a giorronnada, si dice qui, cioè a giornata, o a stagione. Ce ne sono pochi, di questi lavori, sono duri, ma per fortuna chi li svolge non deve fare i conti con il caporalato, che in Sardegna è sostanzialmente inesistente. La maggioranza lavora come venditore ambulante, regolare o irregolare, negli spazi pubblici, quelli condivisi: le spiagge, ma anche il centro delle città, i parcheggi e le aree di sosta fuori dei supermercati, dove, oltre a offrirsi di trovare il parcheggio libero e andare a prendere il biglietto al posto tuo, vendono ombrelli, parasole, accendini e fazzoletti.

Pregiudizi e romanticismo
Questi sono i pregiudizi: che i senegalesi siano “portati” per fare gli ambulanti, visto che dopo vent’anni di percorso migratorio continuano a fare lo stesso lavoro, o che, più semplicemente, non abbiano voglia di lavorare davvero.

Una ricerca dell’antropologo Gaspare Messana condotta a Cagliari nel 2014 mette in luce tutti gli aspetti del loro lavoro, la fatica di quelle ore sotto il sole, sotto la pioggia, i no infastiditi e gli aspetti legati ai rapporti con la cittadinanza. Che sono conflittuali, a volte, ma spesso diventano dei veri rapporti di amicizia e fiducia.

Issa è un venditore regolare, da quindici anni ha il suo posto fisso davanti al parcheggio di un supermercato. La mattina va a correre per due ore, dal quartiere Santa Gilla al litorale Su Siccu e ritorno, poi comincia la sua giornata lavorativa. Arriva con un’Ape cross, che qui si chiama Apixedda e Apixedda la chiama anche lui, carica di lenzuola e tovaglie, dentro la quale sembra un gigante, e sistema tutto per bene sul piazzale. Vado a parlarci con mia cugina Martina, che per anni ha lavorato in quel supermercato come cassiera. Dopo gli abbracci fra loro, che non si vedevano da molto tempo, mi racconta un po’ di lui, anche se si interrompe continuamente per salutare i clienti del supermercato: “Come sta signor Giovanni?”, “E sua madre, signora Gina, si è ripresa?”, “È nato il bambino di sua nipote Lucia?”.

In via Santa Margherita i ragazzi che fanno i “parcheggiatori” hanno l’aria più stanca, meno positiva. Alla spiaggia del Poetto chiedo a un uomo che mi mostra anelli e bracciali come vanno le cose, “Aicci aicci”, mi risponde, che vuol dire così così.

La prima idea romantica è che la collettività senegalese sia più integrata di altre, che i suoi componenti siano cioè più inseriti nelle dinamiche socioculturali cittadine. La seconda è che scelgano la Sardegna come terra in cui migliorare la propria qualità della vita perché qui si sentono a casa e perché i sardi sono ospitali.

Issa è una conferma? Sono una conferma i venditori ambulanti con cui mi capita di parlare per le strade di Roma, che mi dicono: “Ah, la Sardegna! Ci vado tutte le estati, si sta benissimo”. Sono ragazzi che vivono a Torpignattara e al Pigneto, arrivano dal Bangladesh ma soprattutto dal Senegal. Vengono tutte le estati in Sardegna a fare la stagione nelle spiagge. Hanno, sull’isola, amici e parenti che possono accoglierli e aiutarli.

Mamadou e Cagliari
Per cercare di capire come stanno le cose parto da quello che conosco meglio, cioè da Cagliari e da Mamadou Mbengas. Mamadou lo conosco da qualche anno perché è molto attivo nella vita culturale cittadina: scrittore (Kumba con madre e Kumba senza madre, Edizioni Multilingue 2016), narratore di fiabe ai bambini e alle bambine, attore, mediatore culturale. Ci incontriamo a Marina, quartiere del centro storico, popolare ma anche turistico, trattorie sarde e botteghe bangladesi.

Mamadou fa parte della prima ondata migratoria arrivata dal Senegal, quella degli anni ottanta e novanta – “sono della prima Repubblica”, dice ridendo. È cresciuto a Dakar, dove, figlio di un operaio, ha potuto studiare e poi trovare un lavoro. A 27 anni gli è capitata un’occasione per venire in Europa, in Svizzera e “siccome è sempre stato un sogno, per me e per tutti noi giovani africani, quello di andare in Europa per poter migliorare le condizioni di vita, sono partito”.

Mamadou Mbengas nella scuola elementare Marcello Serra di Pirri, Cagliari, dove lavora come mediatore culturale, marzo 2017. (Manuela Meloni per Internazionale)

Allo scadere del visto non è tornato a casa – “avrei voluto proseguire i miei studi, quindi quando ho avuto quest’opportunità ho pensato di rimanere e di non tornare indietro, e così è stato” –, ma è venuto in Italia senza documenti, a Bergamo, da un amico che lavorava in fabbrica. Ma anche in Italia, per lavorare in fabbrica, servono i documenti in regola, così gli consigliano di andare in Sardegna, dove i controlli sono pochi e si può lavorare vendendo sulle spiagge. “La Sardegna è sempre stata vista come un primo trampolino, uno spazio molto tranquillo, con meno controlli”, dice.

Dunque è questa la ragione principale per cui molti ragazzi senegalesi sono arrivati sull’isola. Non perché è un’isola meravigliosa, quindi? Ride Mamadou e dice che sì, c’è anche questo, ma questo lo scopri dopo, quando smette di essere un trampolino e diventa il posto dove vivi. Lui è arrivato a Sassari, “facevo il vu cumprà e frequentavo una scuola serale, mi è sempre piaciuto documentarmi, leggere, informarmi”. Nel 1996 ha regolarizzato la sua situazione, approfittando di una sanatoria. È entrato in un progetto di educazione all’intercultura, grazie anche all’esperienza con un’associazione di quartiere a Dakar. Ci ha lavorato per anni e ci lavora ancora adesso che è diventata una cooperativa, e lui ne è socio e consigliere di amministrazione, e lì ha conosciuto sua moglie.

La comunità ti protegge ma dall’altra parte ti annega

“La cosa che mi piaceva di più era l’opportunità di proporre le mie idee, di raccontare l’Africa, di fare con i bambini i giochi che facevo da piccolo, perché i bambini sono sempre curiosi, fanno domande, sono uno stimolo. Lì mi sono detto che era proprio questo che volevo fare da grande”, racconta. “I primi anni ho fatto il vu cumprà ma ho sempre pensato che non fosse il lavoro giusto per me. Ho studiato, ho letto, ho viaggiato, ed è questo che voglio raccontare. Quando facevo il vu cumprà passavo la giornata a chiacchierare con le persone invece di vendere”.

Dunque nel resto dell’Italia e dell’Europa fanno anche altri lavori, i senegalesi, e secondo Mamadou, il fatto che in Sardegna invece continuino a fare i “vu cumprà”, come dice lui, “è un nostro limite, sono d’accordo con Boucar. Abbiamo paura del giudizio della comunità: se arriva un ragazzo e prova a fare qualcosa di diverso viene subito accusato di essere chissà che cosa, di pensare di essere superiore agli altri. C’è la paura di essere giudicati, che diventa un limite. La comunità da una parte ti protegge ma dall’altra parte ti annega”.

Una nuova casa
Boucar è Boucar Wade, che dopo vent’anni passati a fare il venditore nelle spiagge ha cominciato a scrivere libri e ora riesce a vivere di scrittura e reading. Ha pubblicato Occhi aperti e Is bonus malus. Noi altri di Casteddu e ha una rubrica fissa sull’Unione Sarda, il principale giornale dell’isola.

Anche lui in Sardegna è arrivato perché gli avevano detto che era un posto tranquillo, e ora a piacergli è il fatto che i sardi siano “un popolo molto attento alla tradizione, che cerca di aprirsi alla modernità ma cerca di tenere le radici salde. Ricorda quando “un amico stampacino” (di Stampace, altro quartiere del centro storico di Cagliari) l’ha invitato alla festa di sant’Anna, “e sono rimasto a bocca aperta, anche se sono musulmano, era una cosa bella, vedevi questa gente di tutte le età, di tutti le classi sociali”. Gli piace la letteratura di quest’isola, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta è il suo romanzo preferito, gli piace Sentidu, trasmissione della tv locale Videolina, con il conduttore che va di paese in paese a parlare con gli anziani. “Vedere questi vecchietti vicini al caminetto, raccontando, mi fa sentire a casa con mia nonna che racconta”, dice usando il gerundio come facciamo noi sardi.

Sia Mamadou sia Boucar fanno parte di una generazione che negli anni passati è stata in grado mandare soldi alle famiglie e alle comunità rimaste in Senegal. Sono cresciuti in città e hanno studiato. Oggi le cose sono cambiate, la crisi economica qui da noi e laggiù da loro spinge migliaia di ragazzi, quasi tutti minori, a partire ogni giorno, attraversando il deserto e poi, dalla Libia, il mare. Con tutto l’inferno che questo viaggio comporta, a cui nessuno di loro, qui, è indifferente.

Un momento di preghiera all’interno della Grande Casa, conosciuta anche come la Casa di Serigne Touba, a Flumini di Quartu, in provincia di Cagliari, marzo 2017. (Manuela Meloni per Internazionale)

Le associazioni per cui lavorano si occupano dell’accoglienza dei ragazzi senegalesi che spesso arrivano dalle campagne, non sono potuti andare a scuola e hanno meno strumenti di chi li ha preceduti per affrontare il processo migratorio. E hanno dei progetti per farli andare a scuola in Senegal, così che non siano spinti a lasciare il paese. Perché “un conto è quello che ho fatto io, un conto è passare dalla Libia e dal mare dove dal 2000 ad adesso saranno morte oltre 30mila persone”.

Sanno anche di avere una responsabilità verso di loro, per prima quella di dire la verità, anche se non saranno creduti. “Ogni volta che parlo con uno che mi dice che vuole partire, gli dico di non pensare di andare in Libia, perché se non muori lì muori nel mare, loro dicono ok, ma dopo due giorni ti dicono la stessa cosa. Perché pensano che solo gli altri muoiono”, dice Mamadou.

Mi dice che di questo parla molto con i suoi amici che vivono a Torino, a Parigi, con suo fratello che vive a Londra, e, qui a Cagliari, con Boucar e Kilap.

La Sardegna è una fermata prima dell’Africa, non ci sentiamo fuori casa: la Sardegna saluta

Kilap Guey lo incontro un pomeriggio di domenica a Giba, paese del Sulcis, poco lontano dalla costa meridionale, che si vede dalle strade un po’ in salita, nel sole di marzo.

Kilap (La panchina e Barriere invisibili) ha 42 anni, viene da Thies (me lo ripete diverse volte perché non capisco, e alla fine, per spiegarsi, dice “come Thiesi”, che è un paese della provincia di Sassari). È arrivato a 26 anni, il 24 dicembre del 2000, dopo sei mesi passati tra Torino e Brescia, mi dice che “quella sera ho provato in modo molto forte la sensazione che qui c’ero già stato”. Quindi non è solo un caso, il fatto che vivi in quest’isola? “È un caso, all’inizio, o meglio un’opportunità, un trampolino. Ma se poi il trampolino non lo usi, e qui ti fermi, è perché in effetti ti senti un po’ meglio qua, per il clima, perché la Sardegna è una fermata prima dell’Africa, non ci sentiamo fuori casa. La Sardegna saluta, le persone si fermano a chiacchierare, si creano dei rapporti veri”.

Così come Mamadou, che mi dice di sentirsi cittadino perché partecipa attivamente alla vita culturale dell’isola, Kilap sente l’importanza del suo lavoro per la comunità. Secondo lui la mia percezione di una comunità integrata non è sbagliata perché “il senegalese di solito è molto aperto, a volte anche un po’ troppo, e negli ultimi anni ci sono molti ragazzi che sono cresciuti qua che hanno voglia di fare quello che fanno tutti i ragazzi, sicuramente questo dieci anni prima non c’era”.

Fa parte di Nois – il telegiornale dei migranti per i migranti, notiziario web di Ejatv e Sardegna Teatro, ed è il presidente di Sunugal, un’associazione sardo-senegalese che da nove anni realizza progetti di collaborazione internazionale e di interscambio culturale, lavorando nelle scuole, nelle biblioteche, nei comuni.

Issa nel piazzale del supermercato dove fa il venditore ambulante da quasi vent’anni, Cagliari, marzo 2017. (Manuela Meloni per Internazionale)

Per questo oggi siamo nel Sulcis, perché Sunugal ha organizzato una rassegna di cinema e c’è, con noi, “il più grande regista senegalese”: Moussa Sene Absa. Guardiamo, nella sala consigliare del comune di Sant’Anna Arresi, Madame Brouette, film con cui ha vinto il premio come miglior colonna sonora a Berlino, nel 2003.

Dopo, a cena, parliamo del film, delle donne che ne sono protagoniste, mangiamo ravioli con i carciofi e malloreddus con i funghi, capretto con i carciofi e costolette di agnello. Fanno molti complimenti sul cibo, forse sapendo quanto ci teniamo, e scherzano per tutto il tempo.

Con noi ci sono anche Allassane Mbaye – “Io sono di Assemini”, mi dice – e Momar Gaye, musicisti noti e apprezzati a Cagliari, e Mouhamed Dieng, che ha 32 anni ed è arrivato in città grazie a un progetto di interscambio universitario. Studia economia, gli piace questa città, ma non è venuto per rimanere. È venuto per studiare, per fare un’esperienza di vita, e poi tornare a casa.

Ogni tanto parlano in wolof, la lingua più parlata in Senegal, e ridono senza che noi possiamo capirli, mentre loro ci capiscono benissimo anche se si parla in sardo.

Potrebbe durare mesi, questo viaggio che invece è breve, vorrei parlare con tutti, ascoltare le storie di tutti e di tutte.

Ascolto ancora quella di Muhammed Jallow, che ha 21 anni, lavora in una bottega di alimentari a Marina, e mi racconta di quando è arrivato, cinque anni fa. La barca su cui viaggiava è stata soccorsa in mare ed è stato portato qui, non sapendo nulla di cosa ci fosse. Se tornassi indietro, lo rifaresti, quel viaggio? In quel viaggio, mi racconta, suo cugino è morto, suo fratello è rimasto in Libia e no, non lo rifarebbe.
E adesso come vanno le cose? “Aicci aicci”, mi risponde.

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