Il 14 ottobre gli elettori australiani andranno a votare in un referendum che ha riacceso la lunga storia di lotte antirazziste del paese. Tra qualche giorno quasi 18 milioni di elettori saranno chiamati a esprimersi sulla proposta, sostenuta dal governo, di riconoscere per la prima volta i popoli indigeni nella costituzione del 1901.

La proposta prevede anche la creazione di un organo rappresentativo che possa esprimersi su questioni che riguardano le popolazioni indigene, che devono fare i conti con redditi più bassi e maggiori barriere di accesso all’istruzione.

Il primo ministro di centrosinistra Anthony Albanese ha dichiarato che il “sì” porrebbe fine a “duecento anni di promesse non mantenute e di tradimenti, di fallimenti e di false partenze”.

Albanese e altri sostenitori del referendum ritengono che le misure aiuterebbero a fare ammenda per la storia spesso brutale dell’Australia, fatta di colonizzazione e oppressione razziale, che molti considerano il peccato originale della nazione.

Gli europei sbarcarono per la prima volta sulle coste australiane nel 1606, un arrivo che annunciò secoli di sottomissione per gli aborigeni e altri gruppi che avevano prosperato nel continente per millenni.

Oggi gli indigeni australiani hanno gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino, ma la disuguaglianza è dilagante. Secondo le statistiche, l’aspettativa di vita degli indigeni australiani è di circa otto anni inferiore a quella degli altri cittadini. I bambini indigeni hanno meno probabilità di andare a scuola, meno probabilità di essere alfabetizzati e il doppio delle probabilità di morire durante l’infanzia.

La campagna per il “sì” è stata sostenuta da molte personalità del mondo dello spettacolo e dello sport, da Cate Blanchett a Patty Mills fino a Ash Barty, oltre che dal governo di centrosinistra del paese. Tuttavia, dopo avere avuto un forte vantaggio iniziale nei sondaggi, il “sì” ha subìto un arresto, da quando il partito conservatore di opposizione, guidato dall’ex ufficiale di polizia e ministro della difesa Peter Dutton, ha annunciato di essere contrario.

Un recente sondaggio di Resolve ha mostrato che il “no” è in vantaggio sul “sì” con il 56 per cento dei voti, mentre il “sì” si fermerebbe al 44 per cento.

Secondo il sondaggista e analista Kevin Bonham, la campagna per il “no” è destinata a vincere, a meno di un “errore grossolano dei sondaggi”. “Un cambiamento di tendenza di quelle dimensioni nell’opinione pubblica non si verificherà sul breve periodo. E anche se ci fosse un’inversione, siamo in una fase in cui molte persone hanno già votato”, ha detto, ricordando che più di due milioni di persone hanno già votato a partire dal 3 ottobre.

Il razzismo potrebbe essere rafforzato

Qualunque sia il risultato, il referendum contribuirà a definire cosa significa essere australiani e qual è l’immagine del paese nel mondo. Una sconfitta del “sì” sarebbe una significativa “battuta d’arresto per i popoli indigeni e per l’autodeterminazione come diritto universale”, ha dichiarato Dominic O’Sullivan, professore di politica alla Charles Sturt university.

“Penso che questo dica qualcosa di fondamentale sull’Australia, che si considera uno stato coloniale e vuole rimanere tale”, ha detto, prevedendo che “il razzismo uscirebbe rafforzato” da una vittoria del “no”.

Descrivendo il momento come “cruciale”, Bec Strating, esperto di relazioni internazionali e direttore di La Trobe Asia, ha affermato che il voto avrà anche “ripercussioni internazionali”.

“Rivelerà alcuni sentimenti riguardo al trattamento dell’Australia nei confronti della popolazione indigena” che potrebbero complicare le relazioni con gli alleati e i vicini, ha dichiarato.

Nel peggiore dei casi, un “no” potrebbe rafforzare l’immagine degli australiani come bevitori di birra, ignoranti e con una propensione al razzismo, un’immagine che è in contrasto con una nazione in cui si trovano alcune delle città più ricche e multiculturali del pianeta.

“Penso che ci saranno persone in tutta l’Asia e nel Pacifico che non saranno sorprese da questo risultato”, ha detto Strating, prevedendo che stati come la Cina useranno il risultato del referendum per “ridimensionare le critiche” sulla situazione dei diritti umani nei loro territori.

Una sconfitta del “sì” sarebbe anche una sconfitta politica importante per Albanese, che ha promosso continui appelli agli australiani per il “sì”.

Dopo aver investito in un progetto che da tempo sembrava destinato a fallire e che probabilmente lascerà molte comunità aborigene ferite e scoraggiate. Nella storia dell’Australia, solo otto dei 44 referendum proposti agli elettori sono stati approvati. Tutti sono falliti senza un sostegno bipartisan, compreso il voto del 1999 sull’abolizione della monarchia e la trasformazione del paese in una repubblica.