Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha subìto una nuova battuta d’arresto con la decisione di un tribunale statunitense di bloccare i cosiddetti dazi reciproci. La decisione, contestata dalla Casa Bianca, ha fatto impennare i titoli sui mercati finanziari di tutto il mondo.

I tre giudici della corte per il commercio internazionale (Itc) degli Stati Uniti non hanno contestato il diritto del paese di aumentare le tariffe, ma hanno stabilito che questa decisione è una prerogativa del congresso e che il presidente ha abusato del suo potere.

La decisione della corte blocca sia i dazi imposti al Canada, al Messico e alla Cina, sia quelli reciproci decisi all’inizio di aprile, la cui applicazione al di sopra della soglia del 10 per cento è stata rinviata all’inizio di luglio. L’amministrazione Trump ha presentato ricorso, secondo un documento del tribunale visionato dall’Afp.

Nonostante l’incertezza procedurale, la decisione del tribunale è stata accolta con favore dai mercati finanziari: quelli asiatici sono saliti, Tokyo ha guadagnato quasi il 2 per cento e si prevede che le borse europee faranno lo stesso.

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I giudici hanno stabilito che il presidente non può invocare l’Emergency economic response act del 1977 (Ieepa) per imporre attraverso un decreto “una sovrattassa illimitata sui prodotti provenienti da praticamente tutti i paesi”, secondo la sentenza vista dall’Afp.

I giudici ritengono che i decreti adottati “eccedono i poteri conferiti al presidente dall’Ieepa per regolamentare le importazioni”, che gli consentono solo “di adottare sanzioni economiche necessarie in caso di emergenza per contrastare una minaccia ‘straordinaria e insolita’”.

Qualsiasi interpretazione che dia al presidente “autorità illimitata sulle tariffe doganali è incostituzionale”, hanno insistito i giudici. In un parere scritto che accompagnava la decisione, uno dei giudici (il cui nome non è stato reso noto) ha ritenuto che questo “costituirebbe una cessione del potere legislativo all’esecutivo”, il che è contrario alla costituzione degli Stati Uniti.

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Un portavoce della Casa Bianca ha denunciato la decisione come “presa da giudici non eletti”, che “non hanno l’autorità di decidere come gestire adeguatamente un’emergenza nazionale”.

“Il presidente Trump ha promesso di mettere gli Stati Uniti al primo posto e l’amministrazione si impegna a usare tutte le leve del potere esecutivo per rispondere a questa crisi e ripristinare la grandezza statunitense”, ha aggiunto il portavoce Kush Desai.

Da parte sua il leader della minoranza democratica nella commissione per gli affari esteri della camera, Gregory Meeks, ha considerato la decisione come conferma di “un abuso illegittimo del potere esecutivo”.

La corte si è pronunciata su due ricorsi: uno presentato da un’alleanza di dodici stati americani (tra cui Arizona, Oregon, New York e Minnesota) e l’altro da un gruppo di aziende del paese, che accusavano Trump di arrogarsi poteri appartenenti al congresso.

Dal suo ritorno alla Casa Bianca, il leader repubblicano ha usato i dazi come principale strumento di politica commerciale, ma anche per incoraggiare la reindustrializzazione del paese e per esercitare pressioni diplomatiche su altri paesi.

Il 2 aprile ha annunciato i cosiddetti dazi reciproci, destinati a colpire tutti i paesi del mondo, prima di fare marcia indietro di fronte al crollo dei mercati finanziari, concedendo una pausa di novanta giorni, pur mantenendo un supplemento minimo del 10 per cento per aprire le porte ai negoziati commerciali.

Il negoziatore giapponese Ryosei Akazawa ha dichiarato che avrebbe esaminato la sentenza della corte poco prima di partire per Washington per un quarto round di colloqui volti a evitare le tasse proibitive che gravano sulle esportazioni di auto e acciaio.

Inoltre Trump ha fatto marcia indietro sulla sua minaccia di imporre dazi del 50 per cento sui prodotti dell’Unione europea a partire dal primo giugno in previsione dei colloqui.

E Pechino e Washington, dopo una situazione di stallo e un’escalation dei dazi doganali che si sono imposti a vicenda, hanno finalmente concordato a metà maggio un ritorno al 10 per cento sui prodotti statunitensi e al 30 per cento su quelli cinesi.