28 marzo 2015 11:36
Franco Lorenzoni. (Pasquale Comegna)

Mentre parlo con Franco Lorenzoni, nella sua casa-laboratorio in Umbria, lui è sempre in movimento. Prepara un tè, mangia una fetta biscottata, ritaglia, incolla. A un certo punto si mette a costruire delle “lenti” per guardare l’eclissi solare, con scatole di cartone e vetrini da saldatore: taglierino alla mano, nastro isolante e via.

Domani il maestro porterà i bambini della seconda elementare nella piazza del paese a vedere l’eclissi e a cercare di capirla con i compagni di quarta che hanno preparato, con le loro maestre, un esperimento: riprodurranno l’eclissi in scala, con un sole di stoffa largo due metri e distante da loro 200, che, magicamente, sarà ricoperto da una lunetta di mezzo centimetro.

Dopo circa un’ora di conversazione, Franco ha costruito 23 scatole-lenti, il numero dei suoi alunni di Giove, il paesino di poco più di mille abitanti, dove dal 1980 insegna.

È così che funziona con il maestro Lorenzoni: lui dà veramente ai bambini la possibilità di dare una forma al mondo, in prima persona, attraverso piccoli esperimenti o calcoli o disegni, evitando il più possibile l’imposizione di nozioni, informazioni, regole. Insomma s’impara perdendo tempo o meglio dando ai bambini il tempo di capire davvero.

Lorenzoni è un vero maestro di libertà, uno che insegna il cielo, le stelle, il fuoco, le immagini, e poi la nascita e la morte. Lo fa dividendosi tra la sua piccola scuola di Giove (”Quando ho saputo che mi avevano destinato a Giove ho sorriso, un piccolo paese umbro. Ma anche un pianeta. E un dio”) e la casa-laboratorio Cenci, dove sono andata a trovarlo un giovedì mattina.

In pochi conoscono davvero l’esperienza del maestro, ma ci si può immergere in questo suo lavorio gioioso e instancabile leggendo I bambini pensano grande. Cronaca di un’avventura pedagogica (Sellerio 2014), il diario di un anno di scuola raccontato attraverso le voci di alunne e alunni di quinta elementare.

È un libro che va ascoltato, come vanno ascoltati i bambini, primo ed essenziale insegnamento di Lorenzoni. Ascoltarli non significa controllarli, come oggi la stragrande maggioranza dei genitori fa con pretese di messaggi o telefonate costanti o anche con divieti inquietissimi tipo niente tv, niente carne, niente zuccheri. I bambini vanno ascoltati con pazienza, innalzandosi alla loro altezza, senza fretta, dilatando un po’ i tempi. “Oggi i bambini sono al centro dell’ansia, non dell’ascolto. I genitori sono diventati più ansiosi, e la presenza dei telefoni cellulari ha creato non una possibilità ma un obbligo di dare notizie. Quando andiamo in gita, è un continuo, ogni ora una telefonata! Perché l’ansia cresce? In Italia ci sono pochi bambini di cui moltissimi figli unici, con troppi adulti attorno”.

Franco Lorenzoni di figli ne ha tre, Icaro, Laura e Tommaso; e vive con i figli di Roberta, la sua compagna, maestra anche lei a Giove. Ma la sua famigliona è numerosa perché le mamme dei suoi primi figli hanno altri figli e “compresi i nipoti, a Natale siamo arrivati a essere in 24, tutti molto uniti tra noi”.

Al momento in casa ci sono Tommaso, 9 anni e Lorenzo che ne ha 22 e ha la sindrome di Down. Ogni tanto, mentre io e Franco chiacchieriamo, viene a farci un saluto: è molto contento perché è il suo compleanno e alla sera ci sarà una piccola festa in suo onore.

In generale non sono per le proibizioni rigide – eliminare totalmente tv e computer – ma per dare ai ragazzi un’alternativa agli schermi. E la scuola deve fare da contrappeso, da contrasto alla società. Se a casa i bambini sono circondati da schermi in classe devono fare attività manuali: coltivare l’attesa, toccare la terra, osservare le cose più semplici come un albero che cresce o il passaggio delle nuvole. La scuola, vorrei che fosse un luogo dove andare lenti e pensare insieme.

Cresciuto a Roma, figlio di un avvocato e di una madre molto amante dell’arte, dopo il liceo Franco si rifugia a Parigi dove lavora per il giornale Lotta continua e poi a Lisbona, contagiato dall’entusiasmo della rivoluzione dei garofani, alla quale partecipa come cronista. “Occupammo un palazzo, con la scusa della rivoluzione. Era il 1974. Fu bellissimo, rimasi per due anni”.

Tornato in Italia decide di fare il maestro e durante una breve esperienza a Roma, in una scuola elementare della Magliana, entra a far parte del Movimento di cooperazione educativa, che dagli anni cinquanta si è battuto per il rinnovamento della didattica, e da allora porta avanti la sua “battaglia culturale per l’infanzia”.

Dal 1980 Lorenzoni è a Cenci, vicino ad Amelia (Terni) in quella che è ormai un pezzo di storia: tra campi scuola per bambini, corsi di formazione per insegnanti, ospiti famosi come Jerzy Grotowsky, l’inventore del teatro povero, o Nora Giacobini – una delle figure storiche della pedagogia italiana, che a Cenci ha vissuto dodici anni – e ancora Goffredo Fofi, Emma Castelnuovo, di gente ne è passata e di cose ne sono successe molte.

Eppure a Cenci c’è un’aria pura, come se fosse un posto nuovo. Sarà la presenza costante dei bambini, mi dico, che purifica l’aria. La casa, fatta di tre unità, è circondata dalla natura selvaggia e da un giardino volutamente non curato: un luogo semplice, senza sovrastrutture o pseudo-spartanità.

Il giardino, o meglio il campo, è costellato da vari strumenti: un calendario solare, due meridiane, una “sdraio astronomica” di legno dalla quale si possono guardare le stelle in due diverse angolazioni, un “nave” fatta di legno sempre a scopo osservazione del cielo e una specie di teatro all’aperto con staccionate al posto degli spalti, il Teatro della quercia serpente per via dell’albero con il tronco che si allunga alla ricerca del sole.

La mia passione per il cielo è cominciata quando insegnavo a Roma alla Magliana. Le classi erano ricavate dentro appartamenti di un condominio ed erano strette e sentivo che mancava l’aria. Volevo andare lontano per attivare i nostri sogni e il desiderio di conoscere. Così uscivo sempre da scuola e andavo lungo il fiume con il mio gruppo di bambini di sette anni. Era un ambiente degradato ma pieno di cielo, di sole e di vento. Alla fine realizzammo un piccolo giornalino della classe, Contar le stelle. Da allora sono convinto che imparare a osservare il cielo – e la natura e il pianeta – sia uno dei primi e più importanti strumenti per l’apprendimento.

All’ingresso della casa-laboratorio c’è una meridiana con una scritta in greco antico: “Il tempo è un bambino che gioca a dadi, il regno di un bambino”. Chi è l’autore, domando. “Eraclito”, risponde Franco con un gran sorriso.

I bambini di oggi sentono la crisi economica, hanno un’idea di futuro diversa da quella che avevamo noi. Per me può essere salutare fare dei gemellaggi con i paesi del sud del mondo. Noi per esempio abbiamo una corrispondenza con un villaggio in Somalia. Questa è una cosa molto semplice da fare, ma utile per i bambini: relativizzano.

Qui a Cenci la crisi economica non sembra avere intaccato granché. Nella casa-mondo di Lorenzoni e della sua compagna Roberta Passoni non servono molti denari per realizzare gli esperimenti low cost che piacciono ai ragazzi: camminate nel bosco, composizioni e costruzioni con elementi naturali, fotocopie di grandi dipinti importanti da osservare insieme. Lorenzoni è preoccupato, piuttosto, delle sorti del pianeta: dobbiamo tenere a mente l’insegnamento di Alexander Langer: “Dovremmo orientare le nostre scelte di vita, domandandoci se le possono fare tutti i sette miliardi di abitanti del nostro pianeta. So che questo comporta rinunce difficilmente accettabili, ma è frase che un buon educatore deve sempre ricordare”.

Il maestro è convinto che alla luce di questo disastro economico ci sia una sperequazione di ricchezze – anche all’interno della scuola (“per le lavagne interattive multimediali, per dirne una, si sono spesi un sacco di soldi e ora sono già vecchie”) – e che il taglio fatto da Tremonti all’istruzione sia stato insostenibile (“un taglio alla scuola di otto miliardi di euro, l’unico taglio dal 1861!”), ma le sue preoccupazioni si risolvono in gesti attivi, concreti. Le sue sono proposte, ipotesi, più che lamentele.

Il ddl della Buona scuola non si fonda su un’idea pedagogica. È una riforma che l’Europa ci ha costretto ad attuare per sistemare i nostri precari e risolvere una situazione intollerabile. Ma per fare la buona scuola bisognerebbe cominciare dalle scuole d’infanzia: vorrei libertà di accesso a scuole dell’infanzia statali e comunali, gratuite per tutti, mentre in molte regioni del sud ci sono solo scuole private, che costano.

Questo porta a una disparità insopportabile perché in molte zone del sud il 20 per cento dei bambini viene mandato a scuola a 5 anni per risparmiare, grazie alla legge Moratti sugli “anticipatari”, che permette di iscrivere in prima i bambini che compiono 6 anni entro aprile. Un tempo la “primina” la facevano i figli dei più abbienti, ora il corso si è invertito: al nord solo il 4 per cento dei bambini va scuola a 5 anni.

Trovo tutto ciò molto ingiusto perché non è facile per un bimbo stare seduto in classe tutta la mattina… poi le maestre si lamentano che i bambini non sono scolarizzati, una parola che mi fa venire i brividi solo a sentirla! La Moratti era un’imprenditrice e ha cercato di trasformare la scuola in un’impresa, ma abbiamo bisogno di altro.

Insegniamo metafore migliori ai nostri politici. Un dirigente scolastico non è un allenatore, come dice Matteo Renzi. Dovrebbe essere un costruttore di ponti, uno che collega la cultura, in senso lato, ai bambini come sono oggi… e curioso di questi nuovi ragazzi, che hanno nuove passioni ma meno parole, molte informazioni ma minori capacità di sostare e approfondire. Costruiamo ponti tra noi e loro.

Una delle ragioni per cui mi interessava incontrare Lorenzoni è perché sento intorno a me una angoscia collettiva: dove mando a scuola mio figlio? Non ci sono più buone scuole elementari. La scuola pubblica è peggiorata, le private sono ormai migliori. Ho alcuni amici che hanno scelto scuole steineriane o anglosassoni (“così almeno impara l’inglese”) o altri che hanno preferito l’home schooling.

Ho anche amici convinti che sarebbe molto meglio per i loro figli una scuola diversa da quella che si fa oggi. Tanti, soprattutto al nord, sono terrorizzati anche dal numero sempre crescente di bambini stranieri che “invadono” le classi.

Sulle scuole private non ho dubbi: solo il 5 per cento è davvero buono, le altre, sia laiche sia religiose, sono scuole dove gli insegnanti sono pagati poco, a volte letteralmente niente. A Napoli ho conosciuto insegnanti che lavorano praticamente gratis, solo per acquisire punteggio. Le scuole steineriane sono interessanti, sì ma a volte seguono un metodo pedagogico rigido e un unico modello e questo non mi convince.

Ho incontrato anche dei genitori che hanno fatto l’home school ai loro figli ma ho dei dubbi anche qui: la scuola è il principale luogo di incontro con la diversità, qualsiasi diversità. Senza incontro con le diversità non c’è crescita umana e culturale. La presenza di bambini stranieri? Apre altre piste, nuove prospettive. La paura di rimanere indietro con i programmi è una stupidaggine; non esistono più neppure nelle indicazioni ministeriali. Esistono solo nella testa di chi non riesce a mettersi in gioco. Quello che davvero non funziona sono le ‘scuole ghetto’: a Roma c’è una scuola dell’infanzia con l’80 per cento percento di bimbi stranieri e, nella via di fianco, una scuola frequentata quasi esclusivamente da bambini italiani. Questo è molto ingiusto.

Il nuovo ddl propone più insegnanti di sostegno, e questo è buono, ma dipende anche come si lavora. Secondo la nuova pedagogia l’insegnante di sostegno non si dovrebbe occupare solo del bambino con difficoltà, ma essere a pieno titolo insegnante di tutta la classe. Insomma per costruire una scuola davvero inclusiva c’è ancora molto da fare.

Se in classe c’è un bambino con problemi gravi bisogna avere il coraggio di mutare spazi e tempi, modificare la didattica per arrivare davvero a includere tutti. Roberta Passoni, con cui condivido la vita e la passione educativa a Giove e a Cenci, ora ha in classe un bambino che non riesce a stare al chiuso. Che cosa ha fatto allora? Ha modificato le attività cercando di spostarne il più possibile all’aperto.

Perché se lo sguardo dell’insegnante coglie le possibilità e non solo le difficoltà, anche gli altri bambini saranno più accoglienti. Lo stesso vale per i bambini stranieri. Molto dipende da quanto noi insegnanti siamo capaci di battere nuove strade, perché per trasformare la diversità in ricchezza ci vuole molta ricerca, molto lavoro, altrimenti ci rifugiamo dietro semplificazioni retoriche. Non c’è vera inclusione senza una buona dose di coraggio e di immaginazione.

È ora di pranzo. Mangiamo tutti insieme, con Lorenzo e Tommaso. Spaghetti al pomodoro e poi un’insalata di arance che Franco prepara mentre mi racconta la sua passione per lo scrittore , il “francesissimo” Emmanuel Carrère, e mi confessa che non sa l’inglese e che ormai non lo imparerà più: “Se davvero la Buona scuola riuscisse a far studiare l’inglese proponendo alcune discipline spiegate direttamente in lingua, questa sarebbe un’ottima cosa, ma ci vogliono insegnanti capaci di farlo. Di nuovo. Bisogna lavorare sulla formazione”.

Franco mi racconta che dal 2012 fa parte di un comitato scientifico del ministero. Lorenzoni insieme ad altri tecnici è stato chiamato da Marco Rossi Doria, all’epoca sottosegretario, a progettare una formazione per le nuove indicazioni. “Cerchiamo di proporre cose sensate, come laboratori per adulti per metterci tutti in ricerca, ma sai quanti soldi sono stati destinati alla formazione? Quattro euro a insegnante!”.

Ma la ministra dell’istruzione Stefania Giannini non lo convince: “È troppo fissata con il merito. A un certo punto volevano proporre una legge secondo la quale il 60 per cento degli insegnanti più bravi sarebbe stato pagato di più con gli scatti di anzianità sottratti al restante 30 per cento. Per fortuna non è passata. Ma secondo te chi merita di più? Chi merita più attenzione nella scuola? Chi è in difficoltà, non chi è più bravo. La meritocrazia a scuola non ha senso”.

Secondo Lorenzoni, e c’è da stare a sentirlo, la scuola non ha problemi di contenuti, ma solo di relazioni. Il metodo trasmissivo-frontale, con l’insegnante seduto dietro la cattedra e i bambini che ascoltano, è superato perché non permette una costruzione autonoma e critica della conoscenza. Non servono tanti soldi e quelli che servono lui li destinerebbe tutti alla formazione: “Dopo l’uscita del mio libro e del mio film ho ricevuto lettere da giovani insegnanti che mi ringraziano e questo mi rincuora, perché nel nostro paese c’è un grande patrimonio pedagogico da non disperdere. Gli insegnanti più giovani, per troppo tempo precari, sono oppressi da un’epidemia valutativa che invade ogni spazio. Hanno bisogno di entusiasmo e di tornare a credere all’importanza di un mestiere screditato”.

Il film: perché, per chi volesse, è anche disponibile un documentario (bellissimo), girato da Lorenzoni stesso e presentato al Festival del cinema di Roma lo scorso anno, che s’intitola Elementare. Appunti di un percorso educativo (per ora è acquistabile online sul sito cencicasalab.it).

È il momento di salutarsi. Il maestro Lorenzoni mi ha detto una cosa che condensa in una riga il suo pensiero e vorrei ricordarla alla fine di questo racconto: “I bambini hanno molto più da dare che da ricevere”. Lo diceva Donald Winnicott, che è stato uno dei padri della pedagogia del novecento. Si può partire da qui per ricostruire la buona scuola e ripensare all’istruzione come una cosa pratica, concreta: una cultura viva da ricongiungere urgentemente con la natura, universi di creta da modellare, circondati dal verde.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it