21 settembre 2017 13:04

Lo scontro sui valori e le forme della democrazia che da qualche tempo infuria tra i paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’est, entrati nell’Unione negli ultimi quindici anni, ha assunto ormai dimensioni non solo politiche, ma anche culturali e in un certo senso filosofiche. E non è più tanto raro che gli esperti provino ad analizzarlo tenendo conto delle sue implicazioni storiche.

Di recente, l’ha fatto anche il ceco Martin Ehl, commentatore del quotidiano Hospodářské Noviny, che ha scritto un articolo per il sito Transitions online sostenendo la tesi seguente: l’Europa occidentale non capisce le ragioni profonde dietro all’intransigenza dei paesi dell’est e commette l’errore di “applicare una interpretazione postmoderna a società che solo ora stanno vivendo il processo di modernizzazione”.

Apertura mentale e chiusura politica
Non si tratta di un’analisi del tutto originale. Spesso abbiamo letto commenti che ricorrono alle vicende storiche dei singoli stati e ai tempi lunghi dei grandi mutamenti sociali per spiegare il crescente divario tra le democrazie occidentali e i governi nazionalisti (o populisti, o velatamente autoritari, o semplicemente di destra) dei paesi dell’Europa centrorientale, Polonia e Ungheria in testa.
Il ragionamento di Ehl ha però il merito di essere articolato e ben argomentato. In alcuni punti, tuttavia, non è del tutto condivisibile.

È certamente vero che “il processo con cui i paesi dell’est si stanno rimettendo al passo con l’occidente non è solo economico e misurabile con le statistiche, ma è anche un percorso mentale”, che “i cittadini sono sempre più disorientati perché diversi leder politici democratici, europeisti e liberali si sono mostrati corrotti e non affidabili” e che “le continue accuse occidentali” sono inutili e controproducenti. E non bisogna nemmeno dimenticare che i paesi fondatori hanno dato vita alla Comunità europea con l’obiettivo di cedere una parte della loro sovranità, mentre gli stati ex comunisti hanno visto nell’Unione (e parallelamente nella Nato) l’istituzione che li avrebbe aiutati a recuperare e a proteggere la sovranità nazionale dopo gli anni del comunismo.

Tutte argomentazioni condivisibili, che tuttavia non spiegano perché su determinate questioni – l’accoglienza dei migranti, la tutela dei diritti delle minoranze, i diritti dei gay – alcuni paesi dell’est abbiano assunto posizioni di totale chiusura. Neanche il fatto che gli stati ex comunisti siano stati colonie e non potenze coloniali, come invece molti paesi dell’Europa occidentale, basta a giustificare certe posizioni politiche.

Ehl insiste molto sui tempi lunghi delle trasformazioni sociali. Ma, se è innegabile che “per cambiare valori e modi di pensare servono decenni, generazioni”, è altrettanto vero che i tempi che scandiscono la storia delle mentalità non seguono il ritmo determinato dal calendario, ma possono accelerare o dilatarsi a seconda di circostanze e situazioni anche esterne.

Non è detto che se negli Stati Uniti puritani del dopoguerra e nel Regno Unito postcoloniale sono serviti decenni di lotte per arrivare a parlare di matrimonio gay, lo stesso debba accadere nella Polonia del ventunesimo secolo. Perché lo scardinamento di certi tabù in gran parte dell’Europa occidentale agisce necessariamente da traino e facilita certe rivoluzioni anche a est, specialmente in epoca di globalizzazione e confini sempre più labili.

Le dinamiche storiche sono rilevanti, ma c’è chi le ha manovrate per il proprio tornaconto politico

In effetti, il moltiplicarsi di mobilitazioni della società civile, di movimenti e iniziative di protesta in diversi paesi ex comunisti dimostra che i cambiamenti di mentalità ci sono stati e che molte di quelle società oggi sono più aperte e più liberali di trent’anni fa. Se abbiamo l’impressione che sotto il profilo delle libertà e dei diritti negli ultimi dieci anni la regione non solo non abbia fatto progressi, ma abbia subìto un arretramento, è perché la polarizzazione alimentata dall’apertura al mercato e della modernizzazione è stata sfruttata da alcuni leader politici per raccogliere consensi e cementare il proprio potere. Ed è servita a far accettare a cittadini spesso traditi dalle promesse del mercato e del liberalismo una retorica nazionalista e ultraconservatrice fondata sui valori eterni della tradizione e sulla difesa della propria unicità etnolinguistica e religiosa.

Ehl non sembra accorgersi che è proprio il successo di questo progetto politico, più che la necessaria lentezza delle trasformazioni sociali, ad aver determinato l’attuale scontro tra l’Europa cosiddetta liberale e i governi – non le società, facciamo attenzione! – di alcuni paesi ex comunisti. Le dinamiche storiche, insomma, hanno sicuramente la loro rilevanza, ma negli ultimi anni c’è chi le ha manovrate cinicamente per il proprio tornaconto politico.

Su una cosa, invece, Ehl sembra aver ragione da vendere: il comodo esercizio di puntare il dito contro le società dei paesi dell’Europa dell’est, sempre più praticato dai mezzi d’informazione occidentali, non serve a nulla. Sarebbe utile, invece, una nuova attenzione verso quei paesi e verso il loro complesso passato. A patto però – ed è questa l’unica annotazione alla conclusione di Ehl – che le peculiarità locali e storiche non siano usate per far accettare posizioni e discorsi che in un’istituzione come l’Unione europea di oggi non dovrebbero trovare cittadinanza.

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