14 dicembre 2018 16:05

I due giovani siriani Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, che hanno presentato Still recording quest’anno alla Biennale di Venezia, volevano usare la videocamera come un’arma e raccontare la guerra. L’oggetto ha poi preso il sopravvento sui suoi creatori.

Potrebbe essere un film di ragazzi con i capelli lungi che fumano sigarette, si riprendono tra di loro, costruiscono una sala di registrazione per il loro gruppo, organizzano mostre. Un film dove si incontrano persone per strada molto buffe. Un uomo che corre senza sosta, una donna che racconta la sua vita all’obiettivo sperando che sua madre la veda in tv.

La differenza è che la sigaretta è l’ultima (sotto assedio manca tutto, soprattutto le sigarette), l’”atleta” corre in mezzo a un campo di rovine e considera “che è il migliore modo per provare che non ci sono solo terroristi in Siria”, la donna rischia di saltare sopra una bomba non appena ha finito di parlare con i registi. E vediamo questo quasi in diretta. Perché la telecamera del film gira sempre e, spesso, anche oltre il previsto.

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Saeed è un giovane cinefilo che vuole insegnare cinema ai ragazzi di Al Ghouta, la periferia est di Damasco, e Milad lo raggiunge da Damasco. Si ritrovano a documentare uno degli assedi probabilmente più feroci della guerra siriana. Tra il marzo 2011 e il febbraio 2018, 12.783 civili sono stati uccisi a Est Ghouta, tra cui 1.463 bambini, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani. Il quartiere di Douma è stato anche attaccato con le armi chimiche il 21 agosto 2013.

All’inizio della rivolta siriana Saeed e Milad erano considerati citizen journalist. Erano convinti anche loro di essere lì per documentare il presente, i combattimenti delle milizie, la vita sotto assedio. Hanno poi assistito a uno strano fenomeno: le immagini e la videocamera – gli oggetti – hanno preso il sopravvento. E la materialità della guerra si è imposta. “Quanto durerà l’assedio?”. “Quando ho finito i due chili di olive e il mezzo chilo di sugo, vado via”. “Fame o umiliazione?”. “La fame non conta come umiliazione?”.

Umanizzare le immagini
Le conversazioni quotidiane intorno al sugo si fanno subito filosofiche sotto assedio, perché la morte si aggira sopra tutti i protagonisti. La tragedia può cominciare, la telecamera non smetterà mai di girare.

Le immagini dei corpi massacrati non somigliano a quelle delle agenzie di stampa, spesso i registi non sanno dove filmare. Le loro esitazioni si leggono sullo schermo: vanno da un dito a un abito strappato, questa insicurezza dell’inquadratura ha un potere di umanizzazione molto forte, lontanissimo dallo sguardo giornalistico usato per le agenzie.

Assistiamo anche a una educazione cinematografica: i videasti cominciano a filmare quando i loro coetanei cominciano a usare le armi e il film sfrutta questa metafora al massimo. I soldati che filmano – poco importa di quali gruppi fanno parte – non conoscono bene le loro armi, anche loro stanno imparando, anche loro non sanno bene dove girare lo sguardo. Un giovane cecchino rassicura la mamma mentre tiene la mira sul visore, lì c’è tutta l’impressionante normalità della guerra.

Still recording, molto centrato sulle immagini – non usano né voce narrante né interviste fisse – ha anche raccolto una conversazione tra un ribelle dell’esercito libero siriano anti-Assad e quello che chiama Soldato di Assad. Attraverso i talkie della radio, entrambi discutono amabilmente i pregi e i difetti di Assad ricordandosi, per un attimo, che facevano tutti parte della stessa Siria. Non “quella degli Assad” ma quella dei siriani.

Il vero senso del film non si può svelare. Arriva accompagnato dalle ultime, sconvolgenti, immagini che riescono a essere allo stesso tempo vere e assolutamente cinematografiche.

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