12 febbraio 2019 14:31

Insieme al ritiro delle truppe statunitensi dal nordest della Siria, Donald Trump chiede agli “altri stati” – quelli europei in testa – di recuperare in fretta i loro connazionali, ex miliziani (foreign fighter) del gruppo Stato islamico (Is) e le loro famiglie, che sono stati catturati dalle forze curde. Un rompicapo di diritto internazionale e giudiziario che deve essere gestito in fretta sullo sfondo della polemica politica in corso in Francia, uno dei paesi europei più colpiti dal terrorismo e che conta anche più reclute tra i jihadisti.

È arrivato il momento più temuto dalle diplomazie europee da quando i miliziani europei sono partiti per unirsi al gruppo Stato islamico in Siria e in Iraq. Una questione così difficile da gestire da essere diventata anche un’emergenza.

Il portavoce del dipartimento di stato Robert Palladino, il 4 febbraio ha chiesto in un comunicato alle altre nazioni “di rimpatriare e processare i loro cittadini detenuti dalle Forze democratiche curde siriane (Sdf)”. Dal canto loro le forze curde siriane, che tengono prigionieri oltre 900 miliziani stranieri dell’Is e quattromila loro familiari, avvertono di non essere in grado di poterli gestire ancora per molto. In caso contrario, spiega lo specialista di Siria Jean Pierre Filiu, si teme l’inizio di scambi di prigionieri tra i curdi e l’Is, fenomeno pericolosissimo che lascerebbe in libertà molti foreign fighter europei. La questione più discussa dai servizi di intelligence mondiali da quando è nato l’Is deve essere ora gestita in fretta.

Una novità assoluta
L’aspetto legale è “una novità assoluta nel diritto internazionale”, spiega su France Culture l’avvocato William Bourdon, che ha accettato di difendere molte famiglie di jihadisti. Il caso siriano è, inoltre, particolarmente complesso. Da tempo, per esempio, alcuni jihadisti europei sono sotto processo nei tribunali iracheni per associazione terroristica, dato che gli stati europei riconoscono lo stato iracheno e il suo sistema giudiziario.

Con la Siria la situazione è molto diversa: la maggiore parte dei paesi europei non riconosce il regime di Bashar al Assad e ancora meno la sua capacità di organizzare giusti processi, mentre le forze curde mancano chiaramente di risorse e capacità per organizzare questi processi. Inoltre, il fatto di trovarsi in presenza di una maggioranza di donne e bambini complica ulteriormente la situazione.

I paesi europei sono divisi sulla strada legale e politica da seguire, mentre la posizione degli Stati Uniti è ondivaga. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a drastici cambiamenti di posizione.

In Danimarca i foreign fighter sono reintegrati nella società e sono seguiti da un pool di psicologi, poliziotti e assistenti sociali

Nel Regno Unito, la scelta cade in primis sul ritiro della nazionalità ai miliziani e il rifiuto categorico a un loro rientro legale nel paese. La settimana scorsa, due dei tristemente famosi “Beatles” – i torturatori dell’Is chiamati così dalle loro vittime per il loro accento britannico – sono stati estradati verso gli Stati Uniti, che apriranno a loro carico il processo all’inizio di quest’estate.

In Danimarca, la strategia dei reinserimenti è cominciata da tempo, come attesta il famoso caso di successo della città di Arhus. Nella seconda città danese, i foreign fighter sono reintegrati nella società e sono seguiti da un pool di psicologi, poliziotti e assistenti sociali. La città è cosi diventata un “modello di reintegrazione di jihadisti”.

In Francia il dibattito si è fatto violentissimo da quando il governo ha annunciato questa settimana il rimpatrio di 130 jihadisti tenuti prigionieri in Siria.

Patrick Jardin, padre di una ragazza vittima degli attentatori del Bataclan, ha scritto su Twitter che i 130 jihadisti francesi che devono rientrare dovrebbero essere “fucilati come Leclerc ha fatto fucilare i francesi delle Waffen SS”. Sono soprattutto ragazzi e minori, ha precisato Nicole Belloubet, ministra francese della giustizia. “Uccidiamo anche i bambini, dovremmo infatti cominciare da loro”, ha rincarato Jardin, sempre su Twitter.

Il giornalista Nicolas Henin, ostaggio dell’Is per dieci mesi a Raqqa in Siria, ha quindi messo in guardia i social network da dichiarazioni così violente: “Perdere la figlia in una situazione tragica non giustifica un tale fiume di odio”. Il 4 febbraio Henin ha dovuto presentare una denuncia contro ignoti per le ripetute minacce di morte ricevute dall’estrema destra da quando ha segnalato l’account di Jardin.

La sfida più grande
Il giornalista francese Daniel Thomson ha coniato la categoria dei révenants (che, in francese, significa allo stesso tempo zombie e chi sta effettivamente tornando) nel suo omonimo libro d’inchiesta sugli ex combattenti dell’Is, Les revenants, pubblicato nel 2016. Il libro gli è valso il premio Albert Londres nel 2017, ma anche minacce di morte che lo hanno spinto ad andare in esilio negli Stati Uniti. Dopo una lunga inchiesta sul campo in Tunisia dal 2011 al 2014 – il paese al mondo con più jihadisti partiti per combattere in Siria e Iraq – aveva scritto già nel 2015 che “gestire la popolazione dei révenants è la sfida più grande per le autorità francesi”.

La gestione delle famiglie e dei bambini è altrettanto complicata. Il recente caso della francese Mélina Boughedir, condannata all’ergastolo in Iraq, mostra la complessità della questione giudiziaria. La donna afferma di essere stata minacciata e obbligata dal marito jihadista Maximilien Thibault – ora scomparso – a seguirlo a Mosul. È accusata di avere invece raggiunto le brigate femminili dell’Is in Iraq. Ha ora accettato il rimpatrio di tre dei quattro figli in Francia. Per William Bourdon, il suo avvocato, questo testimonia il bisogno di giudicare le persone “un caso alla volta”.

Per gran parte della classe politica francese il ritorno è impossibile. Secondo il deputato di Calais Pierre-Henri Dumont, i jihadisti “non meritano di essere francesi” e dovrebbero essere semplicemente “eliminati”. Uccidere senza processo dei prigionieri – qualsiasi sia stato il loro crimine – rimane però un crimine di guerra per il diritto internazionale. Per Henin, “è drammatico che dei politici possano proporre di abbassare i nostri standard morali ai livelli di quelli dei nostri nemici” e che invitino pubblicamente l’esercito francese a compiere addirittura dei crimini di guerra.

Per chi è a favore dei rimpatri come Thomas Legrand, che lo scrive in un editoriale per Radio France, il rifiuto di un giusto processo a dei cittadini francesi è un chiaro segno dei nostri tempi illiberali e del sentimento di debolezza che attraversa le nostre società. Anche la funzione chiarificatrice è fondamentale, ricorda l’editorialista: “I processi a Maurice Papon o a Klaus Barbie (il primo fu un alto funzionario francese collaborazionista durante l’occupazione nazista e il secondo il comandante della Gestapo nella Lione degli stessi anni) ci hanno aiutato a capire la storia e i suoi risvolti. Perché non possono farlo anche quelli dei jihadisti? Dobbiamo decostruire i loro discorsi per poterli combattere meglio a casa”.

Di fatto, se le nostre democrazie, fondate sullo stato di diritto, non sono “abbastanza sicure di sé per rimpatriare, giudicare e condannare i proprio nemici interni”, la domanda non sarà più che cosa diventeranno i foreign fighter rimpatriati, ma che cosa diventeranno le nostre democrazie fondate sullo stato di diritto.

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