05 giugno 2019 13:11

Sono passati otto anni di guerra. Il regime siriano con l’appoggio dell’esercito russo ha vinto militarmente contro i gruppi terroristici e le milizie sostenute da alcuni paesi della regione, ma soprattutto contro il suo popolo.

Per vincere a tutti i costi, il regime di Bashar al Assad si è reso colpevole di gravissimi crimini di guerra. E il rapporto I muri hanno orecchie del Syria justice and accountability centre (Sjac) disegna, grazie all’analisi di cinquemila documenti ufficiali dei servizi segreti siriani, un quadro chiaro del suo funzionamento e delle sue responsabilità. Un giorno, il tiranno e i suoi aiutanti dovranno essere giudicati per le torture, le migliaia di sparizioni forzate e le centinaia di attacchi contro obiettivi civili. Sono tutti metodi che gli hanno permesso di vincere la guerra interna.

Il gruppo di avvocati penalisti internazionali del Sjac sta preparando le carte perché, spiega Roger Lu Phillips, senior program officer del progetto, contattato via Skype a Washington, “la giustizia per le vittime è essenziale. Ci vogliono risarcimenti ma servono anche un conteggio delle persone sparite e la restituzione dei beni confiscati ai siriani in esilio… La lista è lunga. Non si può cominciare nessun processo di riconciliazione senza avere prima definito che cosa è successo esattamente”.

Phillips, così come la squadra di persone che hanno studiato le cinquemila pagine di documentazione, sa che un processo ad Assad o al suo regime non è all’ordine del giorno. La situazione geopolitica non lo lascia intravedere, ma la giustizia deve anche procedere al di là della politica: “Ho lavorato per dieci anni al tribunale per la Cambogia”, spiega ancora Roger. “Ci abbiamo messo quarant’anni per ottenere giustizia. È certamente frustrante per le vittime, ma secondo loro è comunque importante. Questa volta, dobbiamo essere più veloci ed efficienti”.

Niente di nuovo per i siriani
Quello che emerge in primo luogo dal rapporto del Syrian justice and accountability centre sono le prassi dei servizi segreti, tristemente conosciute dai siriani di due generazioni. Le tecniche di sicurezza usate sotto il regime di Bashar sono rimaste quelle impostate dal padre, Hafez al Assad. Le diverse agenzie non hanno un mandato chiaro, in modo da creare “una costante competizione tra di loro” e “una gara di lealtà al presidente”. Il capo di stato si accerta così che nessuno si coalizzi o sia in condizione di minacciare il suo potere.

I documenti permettono di ricostruire come vengono prese le decisioni all’interno dei servizi segreti siriani, rivelando “non solo la serie di violazioni dei diritti umani, ma anche quanto i servizi siriani si siano infiltrati in ogni aspetto della vita”, ben prima del 2011. Si leggono così i rapporti su una gita scolastica di alunni cristiani in un’antica chiesa, di un cittadino avvistato mentre sputava vicino alla statua del presidente, o ancora di una persona che ha parlato male del governo durante una cena di famiglia: i muri siriani hanno davvero orecchie. I servizi sono estremamente ramificati a livello locale e possono influire sulla vita privata delle persone, su chi può abitare in un dato condominio, addirittura su chi si può sposare e con chi.

I servizi producono anche una propaganda a uso interno per i loro stessi quadri. Il rapporto analizza statisticamente, per esempio, il crescente uso della parola “terrorista” per indicare chiunque è stato arrestato dal regime, con un picco importante registrato nel 2012. Si tratta di un modo per giustificare gli orrori che gli agenti sono spinti a compiere credendo di avere di fronte dei terroristi.

Secondo Phillips è un fatto molto frequente nei casi di crimini di guerra: “Ho sentito spesso questo tipo di giustificazione in Cambogia: è spesso difficile giustificare a se stessi le torture inflitte. E la propaganda interna permette di fare sentire le persone a posto con la loro coscienza. Uno dei più importanti imputati in Cambogia si chiamava Douk ed era un vero sociopatico, ma a parte lui quasi tutti gli altri erano convinti di avere agito per il bene del paese”.

Sarà forse questa la giustificazione e la difesa di “Hitler”, l’ufficiale siriano che si faceva chiamare così dai detenuti, quando dovrà rispondere delle sue azioni davanti a un tribunale. L’ufficiale, denuncia il rapporto, trattava gli esseri umani come animali, che dovevano abbaiare o miagolare a quattro zampe.

Una lunga lista di prove
Il rapporto del Sjac arricchisce una lunga lista di documenti sulla brutalità del regime siriano: nel 2014 un poliziotto siriano incaricato di fotografare i cadaveri dei detenuti fuggì con le foto di 6.700 corpi chiaramente vittime di torture. Le immagini di Caesar, suo nome in codice, hanno fatto il giro del mondo e sono agghiaccianti.

In Italia Dawla, il libro del giornalista Gabriele Del Grande, ha raccolto testimonianze terribili di torture e vessazioni inaudite nella tristemente famosa prigione di Saydanya, descritta da Amnesty international come un “mattatoio umano”. Nel suo rapporto sulla prigione, l’organizzazione per i diritti umani considera che la quantità di persone morte in detenzione può essere paragonata a un vero e proprio “sterminio”. Circa 17mila detenuti sono inoltre spariti senza lasciare traccia e secondo il New York Times “il repertorio delle torture del regime si ispira ai colonizzatori francesi, alle dittature della regione e anche ai nazisti: per anni l’aiutante di Adolf Eichmann, Alois Brunner, è stato uno dei consulenti del regime siriano”.

Giustizia prima di tutto
Il percorso della giustizia internazionale è già cominciato: Francia e Germania hanno entrambe arrestato ufficiali siriani di alto grado per crimini contro l’umanità. Ed è solo l’inizio. Il rapporto della commissione registra i fatti e li definisce secondo il diritto internazionale penale: siamo in presenza di crimini di guerra in quanto non c’è traccia del “principio di distinzione” negli ordini: “Gli ordini non dicono mai di controllare i veicoli prima di sparare o di provare a evitare vittime civili. Dato che la maggior parte della guerra in Siria si è svolta in centri urbani, un’attenzione particolare avrebbe dovuto essere data ai civili ma non si trova traccia nei documenti del principio di distinzione” (pagina 19).

Nessuna traccia anche del principio di proporzionalità: in un attacco su Idlib gli ordini sono di usare “qualunque forma di forza”, prova concreta che lo stato maggiore siriano non considera il principio di proporzionalità mentre scrive gli ordini. E anche questo costituisce un crimine di guerra secondo il diritto internazionale penale.

Inoltre capita molto spesso di ritrovare tra i documenti, aggiunge il rapporto, ordini di attaccare infrastrutture civili come scuole, moschee, ospedali e case residenziali dove sarebbero nascosti terroristi. “Gli ordini erano di bombardare al più presto, senza mai fare riferimento alla presenza di civili sugli obiettivi” (pagina 21).

Cinque milioni di siriani vivono oggi in esilio – quasi la metà della popolazione siriana. La maggior parte di loro non potrà avere la garanzia che la loro vita non sarà in pericolo una volta rientrati nel paese. Dato che “gli abusi dei servizi siriani nell’ambito dei diritti umani e dei crimini di guerra comportano un aumento delle detenzioni arbitrarie e le sparizioni, questo ciclo di terrore deve essere fermato”, conclude Phillips.

Una forma di giustizia penale transizionale (cioè applicata a situazioni di transizione dopo conflitti o repressioni) – che si svolga con un processo a Bashar al Assad per crimini di guerra presso la Corte penale internazionale o in tribunali di verità e riconciliazione in Siria, o in qualsiasi altra forma – è cruciale. Quando ci sarà una situazione geopolitica adatta, le carte saranno pronte.

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