13 luglio 2017 15:41

Il 30 giugno la ministra dell’istruzione Valeria Fedeli ha dichiarato in televisione che un insegnante italiano dovrebbe essere pagato tremila euro al mese. Qualche giorno dopo, i risultati della ricerca “Education at glance” dell’Ocse, ripresi da vari giornali, mostrano che gli stipendi della scuola italiana sono non solo tra i più bassi d’Europa – 1.300 euro di media netti al mese appena assunti, 1.800 a fine carriera – ma anche quelli che hanno subìto la contrazione più forte negli ultimi anni, il 7 per cento circa.

Sono dati che, se scorporati, fanno ancora più impressione: a fine carriera, a fronte di una media salariale annua nei paesi Ocse di 44.407 euro lordi, e a una media europea di 44.204, l’Italia risponde con 35.951 euro, ed è seguita solo da Grecia, Polonia, Ungheria e Slovacchia. Lo stipendio di un docente italiano a inizio carriera è in media di 29.445 euro annui, sei anni fa era di 31.914 euro. Nel frattempo l’inflazione poco ma continua a salire: l’1,2 per cento rispetto al 2016.

Questi dati svelano la retorica dietro tutte le dichiarazioni dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Da Berlusconi a Renzi, non c’è stato premier che non abbia detto di voler puntare sulla scuola: eppure oggi la spesa per l’istruzione in Italia è del 3,7 per cento contro una media europea del 4,8. Fanno anche piazza pulita del dibattito sulla valutazione degli insegnanti che ha accompagnato tutto il lungo percorso parlamentare della legge 107, ossia la Buona scuola.

Una legge che, partorendo l’obbrobrio del bonus per merito stabilito dai comitati di valutazione, ha mancato l’obiettivo fondamentale: investire sul serio sulla qualità dell’insegnamento.

Qualunque misura sarà inefficace se le politiche scolastiche non verranno completamente ripensate

Chi frequenta le aule scolastiche si rende conto di questo disastro anche senza leggere le cifre: molti docenti fanno fatica ad arrivare a fine mese, non riescono ad aggiornarsi e nella maggior parte dei casi cercano di garantirsi, in modo informale, un salario accessorio con le ripetizioni private.

Il rinnovo del contratto nazionale – bloccato da quasi dieci anni – dovrebbe arrivare nel 2018, e probabilmente prevederà un aumento medio di 85 euro mensili. Ma anche questa misura sarà inefficace se le politiche scolastiche non verranno completamente ripensate.

Nei fatti, l’autonomia scolastica ha significato dire “arrangiatevi” alle scuole. Il fondo d’istituto a disposizione di ciascun istituto pubblico è inferiore ai 30mila euro annui.

Le scuole che vivono in contesti economici più favorevoli provano a portare avanti progetti importanti grazie alla buona volontà degli insegnanti, quelli magari capaci di immaginare i progetti del cosiddetto Pon, il programma operativo nazionale; e dei genitori, che ci tengono a finanziare attività extracurriculari nella scuola dei propri figli. Nel resto dei casi non manca solo la carta igienica – come si dice ormai in modo quasi proverbiale – ma anche la funzione di emancipazione sociale che dovrebbe caratterizzare la scuola.

A guardarlo con occhi onesti, il tema del salario degli insegnanti non è quindi solo una rivendicazione sindacale, ma di democrazia. Avrebbe senso allora legare il nuovo contratto nazionale a un’offerta qualificata di formazione e di ricerca per i docenti; avrebbe senso progettare la scuola non del 2017-2018, ma del 2030 o del 2050, pensare quale sarà il suo ruolo tra dieci o trent’anni, e investire pensando a quel modello.

Per fortuna dopo le battaglie lunghe ma perse contro la Buona scuola, oggi pare risvegliarsi una nuova mobilitazione, che comprende anche i docenti universitari. Hanno deciso di protestare e di farlo in modo radicale – boicottando le sessioni di esame di settembre – per il blocco degli scatti salariali. La ministra Fedeli ha dichiarato qualche giorno fa che secondo lei lo sciopero della didattica universitaria è sbagliato.

Senza nulla togliere alle opinioni altalenanti della ministra Fedeli, la crisi della scuola non è più un tema da addetti ai lavori, ed è giusto scioperare e protestare. Ma se anche fosse sbagliato, è un buon esercizio di democrazia. Sbagliando s’impara.

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