25 marzo 2019 16:14

La famiglia è un luogo da cui scappare, è il luogo che ci addolora, ma insieme è il luogo che prova a salvarci, e che forse ci salva anche quando non ce la fa. Tutti e cinque i candidati ai David di Donatello come miglior film – la manifestazione che assegna i premi per il cinema italiano si svolgerà il 27 marzo – sono apologhi sulla famiglia, e hanno come protagonisti degli outsider, degli sperduti, degli orfani, dei dropout, degli uomini soli. Adulti non adulti, maschi fragili in crisi che non sanno bene come fare a reinventarsi un posto nel mondo, e cercano magari aiuto in un amico o in una società che spesso invece li porta alla deriva: li abbandona, li tradisce, li uccide, li fa diventare assassini; e alla fine l’unico rifugio rimpianto, l’ultimo porto franco è proprio la famiglia.

Marcello (Marcello Fonte) di Dogman di Matteo Garrone è un uomo minuto e mite con un negozio di tolettatura per cani, ma è soprattutto un padre separato: il suo dolore è quello di non poter amare la figlia come vorrebbe; anche per questo si lega al pugile Simoncino (Edoardo Pesce) con un vincolo che sembra un patto di sangue fino a diventarne prima vittima e poi carnefice.

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Lazzaro (Adriano Torniolo) di Lazzaro felice di Alice Rohrwacher è un ragazzo tanto buono da essere una specie di matto del villaggio, fa parte di una comunità di contadini sfruttati come mezzadri da una marchesa che immagina che il mondo possa vivere ancora un’era premoderna. Angelico, inetto persino al rancore, l’unico desiderio che sembra attraversarlo è quello di avere un amico. E se lo trova – o lo subisce forse – in Tancredi, figlio della marchesa psicologicamente soffocato dalla madre, questo prima gli chiede di inscenare un finto rapimento e poi sparisce per decenni.

Alice Rohrwacher racconta una scena di Lazzaro felice


Elio Perlman (Timothée Chalamet) è il ragazzo timido protagonista di Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino: un’estate meravigliosa degli anni ottanta, in una villa di campagna vicino a Crema, si vede arrivare in casa Oliver, un uomo americano bellissimo di almeno dieci anni più grande di lui, e se lo sceglie come amico, fratello maggiore, compagno di giochi, mentore, e infine se ne innamora perdutamente, per soffrire in modo lacerante quando questo si allontana e imparare che non si cresce senza passare attraverso il dolore.

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Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è la messa in scena delle giornate, le ore, che separano l’arresto di Stefano Cucchi (Alessandro Borghi) dal suo omicidio in una caserma dei carabinieri, ed è al tempo stesso la discesa in un inferno privato della madre, del padre e della sorella di Cucchi: prima non riescono a sapere nulla di lui né a incontrarlo, poi sono costretti ad assistere inermi alla notizia della sua morte.

Ettore (Valerio Mastandrea) è uno dei due protagonisti di Euforia di Valeria Golino: è malato anche se non sa che gli resta poco da vivere, perché suo fratello Matteo (Riccardo Scamarcio) nel decidere di prendersi cura di lui glielo nasconde. I loro sono due mondi opposti: Matteo è l’uomo metropolitano, imprenditore di successo, omosessuale disinibito, giovanile, contemporaneo; Ettore è rimasto a vivere nella casa di Nepi, vicino a Roma: convinto dei suoi ideali provinciali, non ha mai deciso di azzardare, e ora vicino alla morte si rende conto che la sua timidezza sociale è stata forse una gabbia più che uno scudo.

Valeria Golino racconta una scena di Euforia


L’intera stagione attuale del cinema italiano descrive un paesaggio umano dove la crisi è ormai avvenuta e la commedia all’italiana – più che il cinema d’autore, il neorealismo, o il genere – resta la radice deformata su cui costruire un immaginario della sopravvivenza. I veri protagonisti, anche se apparentemente di secondo piano, delle storie raccontate dai film sono proprio coloro che restano, che sopravvivono, come recita la dedica di Ride, bellissima opera prima di Valerio Mastandrea: ci sono i lazzari, i testimoni come Ilaria Cucchi, ci sono gli animali, come i cani alla fine di Dogman o di Lazzaro felice; e il fatto che Loro 1 di Paolo Sorrentino si aprisse con una pecora stecchita sembra proprio contestualizzarlo come film di una stagione precedente, quella che ha raccontato la decadenza e la crisi, più che la sopravvivenza (come accade appunto in Loro 2).

È interessante che anche i luoghi somiglino a spazi sempre meno connotati, paesaggi superstiti a un’apocalisse. La non-città di Dogman è esemplare, ma vale lo stesso per la Sardegna di Figlia mia di Laura Bispuri o la piana del Volturno del Vizio della speranza di Edoardo De Angelis, per la campagna fuori dal tempo e i suburbi di Lazzaro felice, per la periferia della Terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo o per la provincia autostradale di Manuel di Dario Albertini o ovviamente per la terra di nessuno che sono le stazioni dell’agonia di Stefano Cucchi. Al contrario di quello che il discorso pubblico sull’Italia continua a rappresentare, i confini tra nord e sud sono meno visibili, le differenze sociali si appiattiscono verso il basso, sembra quasi avvenga quel processo di borgatizzazione descritto da Walter Siti nel Contagio; e nemmeno il cinepanettone si muove più in un Natale in luoghi esotici ma viene ambientato tutto nell’interno di un albergo.

Laura Bispuri racconta una scena di Figlia mia


Perfino quello che avviene in Amici come prima di Christian De Sica è abbastanza significativo di un passaggio di fase. Maurizio Grande, il più importante studioso di commedia all’italiana, ne collocava l’inizio con I soliti ignoti e la fine con Amici miei, in una lunga parabola che accompagna il boom e la trasformazione dei consumi. In tempi di post-crisi, la possibilità di una commedia all’italiana classica sembra impossibile, il cinepanettone assume toni malinconici, la commedia sentimentale un carattere cartoonesco (vedi La Befana vien di notte o Favola), e anche due registi come Daniele Luchetti e Paolo Virzì lavorano sui toni minori e/o quelli farseschi in Io sono tempesta e Notti magiche.

Se si vuole davvero comprendere questo passaggio, che potrebbe essere riassunto come l’idea che da un cinema realistico si cerchi una visione alterata del reale (anche quando come in Sulla mia pelle o in Dogman il racconto sembra adesivo alla cronaca più scabra), va esplorato il lavoro che hanno fatto i direttori della fotografia dei film in concorso. Tre di loro sono stranieri, e non è un caso: lo standard realistico televisivo è così forte nell’immaginario dello spettatore, come anche l’abitudine che ormai abbiamo a guardare la luce sciatta delle dirette Facebook, che spesso andare al cinema si riassume proprio in un’esperienza di visione primaria, cromatica e ottica, che trasfiguri anche i luoghi che ci sono consueti.

La luce naturale di Hélène Louvart di Lazzaro felice che divide il film quasi in due parti distinte (il giorno e la notte, la campagna e la città), la polarizzazione estrema di Nicolaj Bruel di Dogman, la gloriosa luminosità di Sayombou Mukdeeprom in Chiamami con il tuo nome s’inventano quest’Italia impossibile, una terra immaginata, sospesa nel tempo, in cui gli anni ottanta sono simili a oggi, gli anni novanta simili al dopoguerra; così come il lavoro cinematografico di Paolo Carnera nella Terra dell’abbastanza o di Michele D’Attanasio in Capri revolution, due film scurissimi, ci restituisce prima di una visione del mondo, un attraversamento esperienziale, intimo, doloroso, del tempo vissuto.

È stato un interessantissimo anno per il cinema italiano, ma sicuramente il tono più potente è quello di una malinconia pervasiva, come se stesse accadendo una lunghissima veglia in famiglia, un’elaborazione collettiva di un lutto il cui senso dobbiamo ancora mettere a fuoco.

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